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Handmade Festival, Guastalla (RE), 7 e 8 giugno 2025
Quest’anno l’Handmade Festival ha superato se stesso: non che gli altri anni il festival nella bassa reggiana crocevia di tentazioni indie, garage ed elettroniche abbia mai deluso, ma diciamo che quantomeno solo per il nome di Jon Spencer l’appuntamento del 2025 a Tagliata di Guastalla (RE) assumeva dei contorni ancor più alti. E la conferma più grossa è venuta dal pubblico sempre numeroso nonostante ci fosse la concomitanza con il weekend del Primavera Sound (inutile nascondere che parte del pubblico di riferimento dei due festival sia il medesimo) ma soprattutto presobene. Sì perché se un aggettivo può essere usato efficacemente per il festival di Guastalla, quello di polleggiato va speso senza remore: è il condensarsi dei tempi lenti della bassa con l’energia della festa di paese ma la lungimiranza di un festival di caratura (lo diciamo? diciamolo) internazionale.

E di performance memorabili quest’anno ce ne sono state parecchie: partendo subito dalla fine, da quel Jon Spencer che ha sostanzialmente chiuso le danze alla domenica sera con un’esibizione inarrestabile, senza fiato, con una sezione ritmica che personalmente mi ha lasciato a bocca aperta, soprattutto la batteria di Macky Spider Bowman ma anche il basso di Kendall Wind. Bowman sviluppa un’energia incontenibile che Spencer finalizza con il suo usuale modo istrionico, ma è certamente la base ritmica dei Bobby Lees a dare la possibilità al punk-bluesman americano di esibirsi nelle sue contorsioni elettriche senza preoccupazioni. Un concerto che i pioppi dell’argine ricorderanno per molti anni a venire, e non solo loro. Dopo di lui solo Christopher Owens in solo per presentare il suo ultimo disco “I wanna run barefoot throgh your hair” (2024), ma noi eravamo già di ritorno perché la sua esibizione è slittata un po’ oltre le previsioni orarie.

Jon Spencer (foto di Enrico Tallarini)
Un’altra esibizione memorabile è quella di Youth Lagoon la sera prima: Trevor Powers ha svelato la bellezza del suo ultimo “Rarely Do I Dream”, uscito a febbraio e forse un po’ trascurato (sicuramente da noi che non l’abbiamo recensito, ma recupereremo) riaffermando la sua volontà di suonare musica delicata ed elegante, sognante ma non ectoplasmatica, complessa ma non complicata. La sua voce nasale oramai considerata inconfondibile è in effetti strana da sentire live, sicuramente personalissima. Lui al piano è stato un vero mattatore, una specie di John Lennon moderno, unito a una sezione ritmica in gran spolvero. Un concerto di un livello molto alto.

Youth Lagoon
In seconda fascia della domenica inserirei i live sul palco C di Lael Neale, purtroppo molto breve e in una formazione a due che non dà molta possibilità alla cantautrice su Sub Pop di dare profondità alle sue belle canzoni (gustosissime “Down On The Freeway” e “I Am The River”) e dei divertenti TV Dust, molto fantasiosi ed ispirati, mentre un capitolo a parte lo si può dedicare allo stile incredibile di Jimi Tenor che ha deliziato di un’esibizione dal piglio casalingo e talentuoso, con lui che passava dal trasformare i loop con effettistica agli assoli di sax e flauto traverso che impreziosivano il tutto. Del sabato invece ci porteremo dentro anche il rock schietto e senza fronzoli di Smoked Salmon con un Kim Salmon che non si è risparmiato e le infatuazioni eteree del duo belga Reymour, una sorta di Air “psico-romantici”.

Lael Neale
Altri concerti sono rimasti invece in un limbo tra il godibile e il non particolarmente interessante, ovvero quello degli Essaira, comunque piuttosto coinvolgenti con il loro trance-garage movimentato, di Laura Agnusdei, la cui classe non era forse nel luogo e momento giusto, e dei Memorials, che alternavano psichedelia gustosissima a fermate d’atmosfera evitabili. È naturale che ci siano questo tipo di live nei festival, non sempre l’ascoltatore riesce ad essere concentrato quando i concerti si affastellano velocemente l’uno dopo l’altro e quindi il feedback è ancor più soggettivo del solito. Probabilmente questi tre act sono stati meglio di quello che è arrivato a me, ma queste sono state le sensazioni probabilmente anche condizionate dalla stanchezza della due giorni.
Non mi hanno invece colpito le esibizioni di Francesca Bono, che forse oltre alla maestria di Egle Sommacal avrebbe potuto spingere con interpretazioni un po’ più trascinanti “da Palco A” delle sue belle canzoni, e dei Mondaze, che devono sicuramente crescere in personalità per andare oltre ai cliché dello shoegaze (funziona però l’impatto), mentre la maglia nera -a mio personalissimo avviso- rispetto alle aspettative (tutti me ne parlavano bene) è andata ai Moin: piatti, senza un guizzo d’inventiva, con suoni di chitarra brutti e sferraglianti, un dj abbastanza fastidioso, e con l’unico calore di una animosa e puntualissima Valentina Magaletti alla batteria.
Ultima menzione d’onore è per il djset di gran gusto di Bjorn Torske del sabato sera nel “Circus in The Field”, lo spazio per la musica elettronica creato all’interno di un tendone da circo, a latere dello slargo con i palchi e i tavoli per bere e mangiare.
Non importa come si posizionerà il prossimo anno l’Handmade, se alzando ancora di più l’asticella oppure riposizionandola o cosa, perché l’importante – ed è stato ampiamente dimostrato – è il continuare ad esserci come punto di riferimento musicale e luogo di ritrovo di generazioni trasversali.
(Paolo Bardelli)