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Alla fine di marzo del 1995, quando usciva A.M., il disco di debutto dei Wilco, Jeff Tweedy aveva da poco dato vita alla sua nuova band a seguito della fine dell’avventura con il suo partner artistico Jay Farrar negli Uncle Tupelo. Erano molti coloro che si domandavano quale sarebbe stato il disco di debutto migliore, se quello dei Wilco o quello dei Son Volt, la nuova avventura artistica di Farrar, che sarebbe uscito a settembre. La storia sembra averci consegnato una quasi certezza: Trace, il debutto dei Son Volt, è certamente migliore del debutto dei Wilco, ma la carriera delle due formazioni ha avuto sorti decisamente diverse, sorridendo in pompa magna ai secondi e consegnando ostacoli e inciampi ai primi.
Ma questa, appunto, è tutta un’altra storia. Quando alla fine del marzo 1995 i Wilco pubblicavano A.M. consegnavano al pubblico un disco che odorava ancora di quel country sanguinoso e caldo di cui trasudavano le canzoni degli Uncle Tupelo. C’era una sensibilità leggermente diversa, un tocco più folk e dylanesco, nei testi come nelle evoluzioni melodiche, dovuta al fatto che ora Tweedy non era più all’ombra di Farrar. Melanconico al punto giusto, capace di raccontare storie di sconfitti che non sanno di aver perso e di vincitori che non sanno vincere, grumoso e costellato di intriganti tessere, A.M. è un album che, sebbene inferiore agli ultimi lavori degli Uncle Tupelo e a quasi tutti i successivi dischi dei Wilco, non risulta mai incompleto o incompiuto.

Ancora inevitabilmente acerba, la classe di Tweedy si prende qui lo spazio che merita, creando un suono che è ancora parzialmente debitore delle polverose cavalcate degli Uncle Tupelo mentre sta evolvendo in qualche cosa di diverso e più magmatico. Non ci sono ancora la maturità e la profondità di cui sarebbero stati portatori i successivi dischi dei Wilco; la direzione che A.M. imbocca, però, è in parte già quella, con i suoi affascinanti momenti rabbiosi, ironici o a avventurosi.
I riff chitarristici energici e ficcanti di Brian Henneman sono spesso al centro della scena. Percepiamo già in “I Must Be High” che lo sferzante alt-country degli Uncle Tupelo sta muovendo verso qualcosa di maggiormente folk e addirittura pop, vicino ad alcune delle future metamorfosi del gruppo. La voce di Tweedy riempie la stanza con il suo incedere pacato e al tempo stesso incisivo. La poetica nostalgia che emanano “Box Full of Letters”, “I Thought I Held You” e “Passenger Side” è il primo passo verso quella che, in una forma più evoluta e precisa, sarebbe presto diventata una formula melodica e ritmica tipica dei Wilco. “It’s Just That Simple” è l’unico spazio che Tweedy concede a un altro membro del gruppo, per la precisione il bassista John Stirratt, fatto che dimostra quanto i Wilco, pur essendo una band democratica nella quale tutti i musicisti contribuiscono con dedizione e con trasporto allo splendido risultato finale, siano stati sin dall’inizio una storia molto intrecciata a quella del suo leader Jeff Tweedy. Trent’anni dopo, molti album e molte formazioni dopo, è ancora così, dopo alcune difficoltà ma, soprattutto, dopo tantissimi trionfi. A.M. ci ricorda che il primo passo di ogni avventura non è mai casuale o banale.