ROGER WATERS, “The Dark Side Of The Moon Redux” (SGB/Cooking Vinyl, 2023)

La possibilità di scrivere, o comunque valutare in maniera che voglia essere il più possibile oggettiva, circa “The Dark Side Of The Moon Redux” è data – credo – dal non essere tra quelli che considerano l’originale come l’album migliore dei Floyd, concept perfetto e disco irraggiungibile sia per gli stessi Pink Floyd che per altre band nei ’70. È come una pre-condizione, in mancanza della quale occorre astenersi dal recensire questa iniziativa di Waters, ma tanto non si pone il problema per questa tipologia di ascoltatore: a lui non viene nemmeno voglia di ascoltarla, la Redux version, scappa da essa a gambe levate. Quindi lo dichiaro subito: da fan (giovanile) dei Floyd, ho altri album che custodisco in maniera gelosa nel mio cuore, “The Piper…” e “The Wall” su tutti. Forse quindi possiedo quel po’ di distacco necessario per giungere al termine del presente scritto.

Fatta questa necessaria premessa, procediamo oltre con le considerazioni. La prima. Dev’essere difficile condividere con altri la propria arte, se sei egoista o sei un po’ megalomane, e Waters dev’essere probabilmente entrambe le cose. È noto che le opere artistiche subiscono condizionamenti, modifiche e cambiamenti sia in fase genetica se l’opera è collettiva, come è il caso di un gruppo musicale, sia successivamente per via dei significati sia che gli interpreti deputati alla critica attribuiscono ad essa, sia che il pubblico crede di intravedere nell’opera stessa. Un quadro, un film, una canzone, un album, quando fuoriescono dalla mente del creatore iniziano a vagare autonomamente per il mondo, e non appartengono più solo all’autore, ma a tutti. In questo senso Roger Waters è sempre stato piuttosto bacchettone nel ricordare che “il vero Pink Floyd era lui”, ma stavolta non sembra che lo sia stato: «La nuova versione di “Dark Side” non vuole sostituire l’originale, che è ovviamente insostituibile, ma è un modo per questo settantanovenne di tornare indietro di cinquant’anni e guardare negli occhi il ventinovenne di allora e dirgli, citando una mia poesia su mio padre, “abbiamo fatto del nostro meglio, non abbiamo tradito la sua fiducia, nostro padre sarebbe orgoglioso di noi”. È anche un modo per rendere omaggio a una registrazione di cui Nick, Rick, Dave ed io abbiamo tutto il diritto d’essere orgogliosi». Sgombriamo dunque subito il campo da una presunta voglia di Waters di “cancellare l’originale”: è lui stesso che rende merito (e non poteva essere altrimenti) all’album del ’73. Però aggiunge che voleva dargli un taglio diverso e soprattutto aggiornare il significato? E come?

Questo punto rimane più oscuro, e nemmeno le verbosissime parti parlate nella “Redux version” riescono a far capire meglio il senso. Waters dice la nuova versione dovrebbe far comprendere meglio tutti che bisogna “seguire la voce della ragione”, ma di ciò non ho personalmente trovato particolare traccia nelle nuove declamazioni, o non sono stato in grado di coglierla. Waters parla, parla troppo. E non dice nulla di nuovo. Da questo punto di vista la “Redux version” è un flop perché diventa il ricettacolo di elucubrazioni di un 80enne che dispensa consigli non richiesti. Del resto già la versione originale era molto chiara nella sua rappresentazione di alcuni degli elementi chiave delle nostre vite che si concludono tutte, inesorabilmente, nello stesso modo. Già l’album del ’73 infatti era intriso del concetto della morte (“And all that is now and all that is gone”) e delle difficoltà che l’umano attraversa nella sua vita (“Don’t be afraid to care”) con le relative tentazioni di far “eclissare il sole da parte della luna”, metafora di come si può vivere una vita futile o, peggio, finanche malvagia.

Se quindi dal lato testuale e del cantato (mai presente veramente, spogliato dalle note e ridotto a un simulacro di flusso di pensieri) la “Redux version” è una delusione, ciò non può dirsi dal punto di vista del progetto musicale. Qui ci siamo rispetto alle intenzioni: è effettivamente un “Dark Side” rifatto a 80 anni, e quindi stanco, deluso, sfinito. La chiave è stata ritrovata nella versione 2022 di “Confortably Numb”, quella presente nelle “Lockdown Sessions”: così come in quella, l’atmosfera della “Redux” è paragonabile al sottosopra di “Stranger Things”. L’oscurità della luna ha definitivamente eclissato tutto, vola polvere e ci sono sensazioni spiacevoli incombenti. Comprensibile sentirsi così a 80 anni, mica tutti hanno la vitalità di Bowie che riusciva ad irridere la stessa morte a un passo da essa. Quella di Waters è comunque una chiave di lettura legittima, certamente più interessante di chi, più in là negli anni, si mette a rivisitare in acustico i pezzi vecchi, senza mordente e senza senso alcuno, e ogni riferimento agli U2 è puramente voluto (ma anche agli altri brani presenti nelle “Lockdown Sessions” dello stesso Waters). Gli assoli di chitarra vengono trasmigrati in hammond perdendo ogni asperità, tutto è asfittico, senza picchi di intensità, e pure ci sono negati i picchi vocali in “The Great Gig in the Sky”. La vita (anzi, la vitalità) si è trasformata in un borbottio, un rimuginare, un’ossessione. E di ossessioni Waters è sempre stato un esperto, anche in gioventù, figuriamoci ora.

Tutto considerato quindi Waters è riuscito nel suo intento di dare una luce diversa (o, meglio, un “buio aggiuntivo”) all’album, ad offrire un’altra interpretazione che vuole affiancarsi e non sostituirsi all’originale. Sappiamo tutti che la risposta alla domanda “ma ce n’era bisogno?” è ovviamente “no”, ma siamo consci del resto di tutte le tentazioni che possono aver portato a un’operazione del genere, anche economiche, non dimentichiamolo, dettate dal pretesto dell’anniversario dei 50 anni. Waters ha voluto farlo e noi lo abbiamo ascoltato, non avrebbe mai e poi mai potuto essere un capolavoro ma poteva invece essere più facilmente un’offesa all’opera originale, e ciò non è stato. Forse sarebbe stato meglio fosse riuscito a scrivere e registrare un album di musica originale bello come “Is This The Life We Really Want?” (2017), ma non ce l’ha fatta. Ha preferito rifugiarsi nei fantasmi del passato ma senza deferenza, affrontandoli come se fosse l’unica cosa da fare. Ma, del resto, lo dice subito:

The memories of a man in his old age
Are the deeds of a man in his prime

Siamo al “risospinti senza posa” de Il Grande Gasby, e chi siamo noi per giudicare questa modalità di affrontare la morte attraverso il passato della gioventù? È comunque un modo di opporre la vita alla morte, così come lo sono opere totalmente originali, che in quanto nuove sono vive. Entrambe le scelte di un artista al termine della sua carriera sono, credo, comprensibili (anche se la seconda via è indubbiamente più coraggiosa). Ma, ricordiamoci, è già il Waters 29enne che dice che “Non c’è nessun lato oscuro nella luna / In realtà, è tutto buio”. Lui lo diceva ma gli altri Pink Floyd ci donavano sprazzi di luce, di vita. Ecco, quell’equilibrio qui nella Redux manca, inutile negarlo. E, forse, è quell’alchimia la vera incarnazione della vita.

68/100

(Paolo Bardelli)