Milani e Bernardini: la scuola che aiuta a diventare “persone”

A metà degli anni 70 lessi Lettera ad una professoressa di Lorenzo Milani. Fu una rivelazione. Mi sembrava che contenesse tutte le idee più giuste e sagge su quello che oggi definiremmo inclusione, “buona scuola”: rispetto, democrazia, cultura. Poco tempo dopo vidi in televisione uno sceneggiato dal titolo Diario di un maestro, tratto dall’esperienza di Albino Bernardini Un anno a Pietralata, edito da La nuova Italia.

immagine per Don Milani e Albino Bernardini La scuola che aiuta a diventare “persone”

Mi piacerebbe molto parlare di tutti e due insieme, perché per me hanno costituito due pietre miliari di quello che pensavo e che tuttora penso.

Nella mia mente sono rimaste due esperienze diverse tra loro ma molto sovrapponibili, alimentate dagli stessi ideali, dallo stesso pensiero pedagogico e dalla stessa empatia umana, ma non so se abbiano realmente le assonanze che io ci vedo.

Albino Bernardini è un personaggio interessantissimo. Nasce nel 1917 in provincia di Nuoro. Poi si trasferisce in Liguria, poi di nuovo in Sardegna dove si diploma in un istituto magistrale. Partecipa alla seconda guerra mondiale e nel 1960 si trasferisce a Bagni di Tivoli, in provincia di Roma ed insegna in una scuola elementare di Pietralata, una borgata sulla Tiburtina sorta tra il 1935 e il 40 per trasferirvi gli abitanti dei quartieri del centro storico sventrati da Mussolini.

Da questa esperienza nel 1968 nasce il libro e nel 1972 lo sceneggiato televisivo in quattro puntate diretto da Vittorio De Seta. L’introduzione dell’edizione che ho io è di Gianni Rodari, altro grandissimo nome della pedagogia e della letteratura italiana per ragazzi del 900.

La prefazione inizia citando Pasolini: la realtà di cui si parla qui è aderente alle sue descrizioni. Le periferie romane che sorgono in quegli anni sono abitate da un sottoproletariato povero e disorientato. C’è «un’anarchia degli istinti e dei sentimenti»; i ragazzi che ci presenta Rodari non sono né educati né maleducati, sono vittime di modelli culturali che non hanno strumenti per combattere.

Dice Rodari che il suo amico Bernardini capirà presto, dopo un periodo terribile, che l’aggressività dei suoi scolari non è diretta a lui, che è semplicemente  un prodotto di quella cultura, e che se non vuole continuare a cadere e fallire deve andare oltre il suo ruolo in senso stretto, capire prima di tutto senza mai giudicare: fare appello continuo ad una umanità che li tratta da “uomini”.

«Fieri e gagliardi sono due aggettivi che rovesciano e nobilitano la violenza anarchica di cui erano portatori i ragazzi prima di diventare una comunità organizzata e relativamente serena».

Bernardini ha sicuramente dei principi, conosce i metodi della pedagogia e della didattica.  Ma «tratta i ragazzi in quel modo perché è un uomo fatto così». È mosso dall’amore, anche se Rodari ci tiene a specificare che non vuole con questa parola inflazionata evocare il fantasma di De Amicis, che porta con sé un sentimentalismo d’altri tempi. Un anno non basta per ottenere i risultati che sia il maestro che i ragazzi avrebbero meritato, ma crea un precedente, la conferma che è possibile fare qualcosa di diverso.

La descrizione del suo arrivo è davvero interessante riletta oggi, in un momento in cui le famiglie esercitano delle ingerenze continue sui metodi didattici ed educativi.

A Pietralata i genitori si avvicinano alla scuola con un po’ di diffidenza ma soprattutto con soggezione; sono persone che non hanno studiato, operai,   prevalentemente immigrati venuti dal sud d’Italia con l’illusione di fare fortuna o almeno di vivere dignitosamente.

La situazione sociale e scolastica è critica. C’è un disinteresse e un menefreghismo difficili da rimuovere e una forte rassegnazione da parte dei colleghi insegnanti. C’è un’altissima percentuale di abbandono scolastico.

I tentativi di Bernardini di suscitare interesse non danno risultati e spesso ci sono minacce e reazioni aggressive nei suoi confronti. La sua reazione è di scoraggiamento e di rabbia. I primi tentativi di mantenere un ordine e quel minimo di disciplina che consenta lo svolgimento delle lezione sono vani.

Passato lo choc iniziale il maestro comincia necessariamente a scendere a patti con una realtà della quale questi comportamenti sono solo la punta dell’iceberg.

Questo libro rappresenta un percorso a doppio senso: ragazzi si trovano di fronte un maestro “diverso” che decide con ostinazione di capire e “andare oltre” forme e apparenze, e il maestro si trova di fronte ragazzi già adulti, o che quanto meno si sono misurati con difficoltà di ogni genere, dall’indigenza alla mancanza di servizi, strutture, organizzazione del tempo libero.

Riunioni con i genitori in quella scuola non se ne erano mai fatte; i genitori sapevano fare  figli ma non sapevano allevarli, non comprendevano le loro esigenze e di conseguenza non erano in grado di elaborare delle strategie educative. La scuola non era capace di coinvolgerli anzi, proprio la scuola era stata il terreno di scontro tra due mondi: educatori defraudati del loro ruolo insegnando in un quartiere così difficile e famiglie che arrancavano per sbarcare il lunario e temevano di perdere i loro pochissimi diritti.

Il libro dedica ogni capitolo ad un ragazzo o ad un episodio tra quelli che lo hanno colpito di più: gli allievi con le situazioni più complesse, quelli che abbandonano, ma anche quelli che riescono ad avere un percorso di “scolarizzazione” intesa nel migliore dei modi, e cioè non di omologazione o di banale rispetto dei dettami,  ma di curiosità, interesse e apertura verso il mondo che li circonda.

Il rapporto tra i ragazzi è interessante. È un’alternanza continua tra “sfottersi” ed essere solidali. L’episodio della vasca da bagno è significativo: la mamma di Guido ha piantato il prezzemolo ed il basilico nella vasca da bagno. I compagni lo deridono: «nu’ ‘o vedi com’è zozzo! Nun se lava mai! Puzza come ‘na marana!» La madre di Guido decide di irrompere a scuola, fa una scenata ai compagni che prendono in giro suo figlio, ne afferra uno per il collo,  segue una colluttazione, la situazione è tesissima.

Bernardini è pietrificato e spaventato, sa che oltre a quel momento difficilissimo da gestire dovrà sopportare i commenti dei suoi colleghi rassegnati da tempo che cercano di convincerlo che tutto è inutile. Ma alla fine i ragazzi fanno pace e Guido qualche giorno dopo annuncia orgoglioso: «Sor maè, ieri avemo votato ‘a vasca da bagno. Stamattina me so’ fatto er bagno (…) mo’ cor cavolo che me dite vasca da bagno!» Applausi, grida: Guido era diventato uno di loro.

L’esperienza di Bernardini è un crescendo faticoso e molto lento. Riesce a conquistare la fiducia dei suoi scolari e a dimostrare ai suoi colleghi che fare a braccio di ferro è tanto stupido quanto inutile. Sostiene che le sospensioni e i richiami disciplinari non sono una soluzione, anzi spesso accelerano il processo di ritiro dalla scuola.

Dice: «Voler insegnare senza preoccuparsi troppo della vita esterna del bambino è un po’ un vizio di noi maestri; vizio che col passare del tempo è diventato tradizione».

Questa affermazione secondo me somiglia molto all’impostazione che Don Milani dette alla sua scuola, espressa egregiamente in Lettera a una professoressa, pubblicato nel 1967 dalla casa editrice Libreria editrice fiorentina dove i suoi allievi immaginano di scrivere una lettera ad una professoressa della scuola magistrale, polemizzando con lei e con l’istituzione scolastica.

L’accusa è esattamente la stessa: non sapersi calare nel contesto sociale delle classi più povere. Come Bernardini anche Don Milani sapeva che le sospensioni o le bocciature avrebbero alimentato l’evasione scolastica.

Dietro questi ragazzi c’erano famiglie che avevano bisogno che tutti si lavorasse, e questo costituiva un problema oltre che sociale, politico. Si innescava un giro vizioso nel quale le classi sociali più basse continuavano a restare ignoranti, non potendo in questo modo affrancarsi, evolversi, senza conquistare nessuno strumento di emancipazione e contestazione.

Il motto di Don Milani era “I care”, che significa mi importa, mi prendo cura, perché il mondo e gli altri mi appartengono. Era scritto a chiare lettere sulla porta della scuola di Barbiana, nella provincia Firenze, affinché ogni volta che si entrava tutti potessero leggerlo.

Le borgate romane in quegli anni accoglievano e al tempo stesso segregavano gente fuggita dai piccoli paesi del meridione. C’erano tante baraccopoli, dove tutti erano in bilico tra il bisogno di un riscatto e l’umiliazione della discriminazione e della miseria. Pensare di insegnare lì qualcosa non tenendo conto di questo tessuto sociale era una battaglia persa.

Roma oggi non è più quella, le case popolari e l’edilizia dissennata hanno sostituito le baracche; la scuola dell’obbligo ha alzato la soglia di età fino al biennio delle medie superiori; i ragazzi che ne hanno bisogno possono usufruire degli insegnanti di sostegno. Ma ci sono ancora oggi situazioni molto simili, rappresentate da immigrati solo in minoranza italiani. Il meccanismo è lo stesso: l’analisi sociale e politica quando c’è il coraggio di farla, cozza con una realtà che poi non riesce a tenerne conto.

Il problema sollevato dai due libri è  attualissimo:  la scuola può prescindere dal contesto sociale? Può preparare, specializzare, formare, senza curarsi della persona nella sua interezza? E quando  riesce a formare degli individui, dei cittadini, prima ancora che dei professionisti, riesce a preoccuparsi del gruppo o c’è sempre qualcuno che resta indietro?

Credo che per Don Milani come per Albino Bernardini queste siano domande retoriche. La risposta è assolutamente scontata, anche se la realizzazione è difficilissima. Ci si ripete sempre e da sempre che mancano fondi, spazi, personale. È  vero, ma il cambiamento esige domande più profonde che sono le più difficili da farsi.

Bernardini l’anno successivo viene spostato a Villa Adriana, alla periferia di Tivoli. Dopo due anni torna e rincontra alcuni dei suoi ex allievi. In un solo un anno aveva guadagnato la loro stima e la loro fiducia. Direi che era riuscito a “creare un precedente”, esattamente come Don Milani.

Le loro esperienze rimangono un punto fermo che varrebbe la pena raccontare a chi non li ha conosciuti, per imparare a pensare e a far pensare che una scuola diversa sarebbe ed è possibile, e che tutto quello che accade a chiunque e dovunque, ci riguarda e ci interessa.

Rita Baghino
Rita Baghino

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