A metà degli anni 70 lessi Lettera ad una professoressa di Lorenzo Milani. Fu una rivelazione. Mi sembrava che contenesse tutte le idee più giuste e sagge su quello che oggi definiremmo inclusione, “buona scuola”: rispetto, democrazia, cultura. Poco tempo dopo vidi in televisione uno sceneggiato dal titolo Diario di un maestro, tratto dall’esperienza di Albino Bernardini Un anno a Pietralata, edito da La nuova Italia.
Nella mia mente sono rimaste due esperienze diverse tra loro ma molto sovrapponibili, alimentate dagli stessi ideali, dallo stesso pensiero pedagogico e dalla stessa empatia umana, ma non so se abbiano realmente le assonanze che io ci vedo.
Da questa esperienza nel 1968 nasce il libro e nel 1972 lo sceneggiato televisivo in quattro puntate diretto da Vittorio De Seta. L’introduzione dell’edizione che ho io è di Gianni Rodari, altro grandissimo nome della pedagogia e della letteratura italiana per ragazzi del 900.
La prefazione inizia citando Pasolini: la realtà di cui si parla qui è aderente alle sue descrizioni. Le periferie romane che sorgono in quegli anni sono abitate da un sottoproletariato povero e disorientato. C’è «un’anarchia degli istinti e dei sentimenti»; i ragazzi che ci presenta Rodari non sono né educati né maleducati, sono vittime di modelli culturali che non hanno strumenti per combattere.
«Fieri e gagliardi sono due aggettivi che rovesciano e nobilitano la violenza anarchica di cui erano portatori i ragazzi prima di diventare una comunità organizzata e relativamente serena».
Bernardini ha sicuramente dei principi, conosce i metodi della pedagogia e della didattica. Ma «tratta i ragazzi in quel modo perché è un uomo fatto così». È mosso dall’amore, anche se Rodari ci tiene a specificare che non vuole con questa parola inflazionata evocare il fantasma di De Amicis, che porta con sé un sentimentalismo d’altri tempi. Un anno non basta per ottenere i risultati che sia il maestro che i ragazzi avrebbero meritato, ma crea un precedente, la conferma che è possibile fare qualcosa di diverso.
La descrizione del suo arrivo è davvero interessante riletta oggi, in un momento in cui le famiglie esercitano delle ingerenze continue sui metodi didattici ed educativi.
La situazione sociale e scolastica è critica. C’è un disinteresse e un menefreghismo difficili da rimuovere e una forte rassegnazione da parte dei colleghi insegnanti. C’è un’altissima percentuale di abbandono scolastico.
I tentativi di Bernardini di suscitare interesse non danno risultati e spesso ci sono minacce e reazioni aggressive nei suoi confronti. La sua reazione è di scoraggiamento e di rabbia. I primi tentativi di mantenere un ordine e quel minimo di disciplina che consenta lo svolgimento delle lezione sono vani.
Passato lo choc iniziale il maestro comincia necessariamente a scendere a patti con una realtà della quale questi comportamenti sono solo la punta dell’iceberg.
Riunioni con i genitori in quella scuola non se ne erano mai fatte; i genitori sapevano fare figli ma non sapevano allevarli, non comprendevano le loro esigenze e di conseguenza non erano in grado di elaborare delle strategie educative. La scuola non era capace di coinvolgerli anzi, proprio la scuola era stata il terreno di scontro tra due mondi: educatori defraudati del loro ruolo insegnando in un quartiere così difficile e famiglie che arrancavano per sbarcare il lunario e temevano di perdere i loro pochissimi diritti.
Il libro dedica ogni capitolo ad un ragazzo o ad un episodio tra quelli che lo hanno colpito di più: gli allievi con le situazioni più complesse, quelli che abbandonano, ma anche quelli che riescono ad avere un percorso di “scolarizzazione” intesa nel migliore dei modi, e cioè non di omologazione o di banale rispetto dei dettami, ma di curiosità, interesse e apertura verso il mondo che li circonda.
Il rapporto tra i ragazzi è interessante. È un’alternanza continua tra “sfottersi” ed essere solidali. L’episodio della vasca da bagno è significativo: la mamma di Guido ha piantato il prezzemolo ed il basilico nella vasca da bagno. I compagni lo deridono: «nu’ ‘o vedi com’è zozzo! Nun se lava mai! Puzza come ‘na marana!» La madre di Guido decide di irrompere a scuola, fa una scenata ai compagni che prendono in giro suo figlio, ne afferra uno per il collo, segue una colluttazione, la situazione è tesissima.
Bernardini è pietrificato e spaventato, sa che oltre a quel momento difficilissimo da gestire dovrà sopportare i commenti dei suoi colleghi rassegnati da tempo che cercano di convincerlo che tutto è inutile. Ma alla fine i ragazzi fanno pace e Guido qualche giorno dopo annuncia orgoglioso: «Sor maè, ieri avemo votato ‘a vasca da bagno. Stamattina me so’ fatto er bagno (…) mo’ cor cavolo che me dite vasca da bagno!» Applausi, grida: Guido era diventato uno di loro.
Dice: «Voler insegnare senza preoccuparsi troppo della vita esterna del bambino è un po’ un vizio di noi maestri; vizio che col passare del tempo è diventato tradizione».
Questa affermazione secondo me somiglia molto all’impostazione che Don Milani dette alla sua scuola, espressa egregiamente in Lettera a una professoressa, pubblicato nel 1967 dalla casa editrice Libreria editrice fiorentina dove i suoi allievi immaginano di scrivere una lettera ad una professoressa della scuola magistrale, polemizzando con lei e con l’istituzione scolastica.
L’accusa è esattamente la stessa: non sapersi calare nel contesto sociale delle classi più povere. Come Bernardini anche Don Milani sapeva che le sospensioni o le bocciature avrebbero alimentato l’evasione scolastica.
Dietro questi ragazzi c’erano famiglie che avevano bisogno che tutti si lavorasse, e questo costituiva un problema oltre che sociale, politico. Si innescava un giro vizioso nel quale le classi sociali più basse continuavano a restare ignoranti, non potendo in questo modo affrancarsi, evolversi, senza conquistare nessuno strumento di emancipazione e contestazione.
Le borgate romane in quegli anni accoglievano e al tempo stesso segregavano gente fuggita dai piccoli paesi del meridione. C’erano tante baraccopoli, dove tutti erano in bilico tra il bisogno di un riscatto e l’umiliazione della discriminazione e della miseria. Pensare di insegnare lì qualcosa non tenendo conto di questo tessuto sociale era una battaglia persa.
Roma oggi non è più quella, le case popolari e l’edilizia dissennata hanno sostituito le baracche; la scuola dell’obbligo ha alzato la soglia di età fino al biennio delle medie superiori; i ragazzi che ne hanno bisogno possono usufruire degli insegnanti di sostegno. Ma ci sono ancora oggi situazioni molto simili, rappresentate da immigrati solo in minoranza italiani. Il meccanismo è lo stesso: l’analisi sociale e politica quando c’è il coraggio di farla, cozza con una realtà che poi non riesce a tenerne conto.
Il problema sollevato dai due libri è attualissimo: la scuola può prescindere dal contesto sociale? Può preparare, specializzare, formare, senza curarsi della persona nella sua interezza? E quando riesce a formare degli individui, dei cittadini, prima ancora che dei professionisti, riesce a preoccuparsi del gruppo o c’è sempre qualcuno che resta indietro?
Bernardini l’anno successivo viene spostato a Villa Adriana, alla periferia di Tivoli. Dopo due anni torna e rincontra alcuni dei suoi ex allievi. In un solo un anno aveva guadagnato la loro stima e la loro fiducia. Direi che era riuscito a “creare un precedente”, esattamente come Don Milani.
Le loro esperienze rimangono un punto fermo che varrebbe la pena raccontare a chi non li ha conosciuti, per imparare a pensare e a far pensare che una scuola diversa sarebbe ed è possibile, e che tutto quello che accade a chiunque e dovunque, ci riguarda e ci interessa.
art a part of cult(ure) è il magazine online nato con l’intento di promuovere, diffondere, valorizzare l’arte contemporanea e più in generale la complessità della cultura nelle sue molteplici manifestazioni.
È gestito da un team di donne. Le ragioni della collaborazione tra Kalporz e art a part of cult(ure) puoi leggerle qui.