I Righeira, la playa e l’estate 1983, il libro di Fabio De Luca

Nel suo Oh, Oh, Oh, Oh, Oh. I Righeira, la playa e l’estate 1983 (Nottetempo, 2023) Fabio De Luca ha delineato non solo l’origine e la struttura di uno dei successi più clamorosi della discografia italiana (“Vamos a la Playa”), ma indossato i panni, nel corso dei capitoli che scorrono ad una velocità esorbitante, del sociologo, perfino dell’archeologo musicale e, infine, dell’ascoltatore curioso con più domande inevase che risposte bell’è pronte.

L’interlocutore, con cui De Luca dialoga concedendosi non poche battute di spirito, è Stefano Righi alias Johnson Righeira, colui che ha contribuito a fondare il mito di questa band, essendone di fatto la mente (dell’altra metà, cioè Michael Righeira, lontano dalle scene e “litigato” con l’ex partner, non è dato sapere) e che adesso, a distanza di quarant’anni esatti, si è buttato nella viticoltura, abbarbicato com’è sulle colline sopra Torino, città ormai cambiata nel profondo, sideralmente distante parecchie galassie da quella in cui iniziò il nostro.

Per intenderci, quella dei club e delle fanzine, nel caso di Johnson intrise di cultura punk e situazionismo spinto, una delle quali di cui fu pure direttore e pressoché unico scrivente (più tardi gli avrebbero dato del venduto proprio per questa sua militanza); delle band new wave e sperimentali, allora alle prese con l’avvento dell’elettronica per cui i Kraftwerk erano più di una semplice ispirazione; Torino era anche la città operaia della Fiat e di Mirafiori, degli scioperi e del terrorismo che aveva sì ricevuto una mazzata tremenda da parte dello Stato già nel ’79 con il processo all’Autonomia operaia, ma le cui violente rivendicazioni erano tutt’altro che scemate; insomma una città in cui la sera (parola di Johnson) non succedeva niente perché la maggior parte dei cristiani l’indomani doveva alzarsi alle cinque per andare a lavorare, ma in cui accadevano cose fuori dall’ordinario.

“Sono davanti al numero 97 di corso Giulio Cesare a Torino, Italia, e sto pensando che un pomeriggio di dicembre del 1981 un ragazzo di ventun anni compiuti da neanche tre mesi è uscito da questo portone, ha preso un tram in direzione centro, è andato in una sala prove vicino alla stazione di Porta Nuova, e la storia di questo pianeta è un po’ cambiata per sempre”.

La canzone è “Vamos a la Playa”, ovviamente, e le parole quelle di De Luca, di cui per altro non abbiamo parlato ma se volete lo facciamo subito: autore, giornalista e dj, in molte cose affaccendato, tra cui la vicedirezione di Rolling Stone Italia, più di recente impiegato in radio e, come lui stesso dice, intervistatore dei Daft Punk con indosso i mascheroni da robot.

Che dire, per quanto ci riguarda una garanzia.

Il libro è un capolavoro di erudizione, non per questo meno accessibile, scritto con uno stile difficilmente presente tra le firme del giornalismo musicale e dotato di una mai autoreferenziale eleganza, cesellata fino all’ultima parola.

L’espediente di ripercorrere le tappe, i luoghi, gli angoli, e le persone in carne e ossa che hanno reso possibile tutto ciò (vedi il capitolo memorabile dedicato ai fratelli La Bionda, eroi della Italo Disco e produttori dei Righeira), fa di questo racconto una specie di grande indagine sulla canzone italiana in cui dentro possiamo trovare cose anche assai diverse: un’inchiesta sul pop, certo, e le sue contaminazioni a partire dal decennio (gli ’80) che più di ogni altro ha riformato il genere proiettandolo in una dimensione globale; la radiografia del mercato discografico, delle sue irrazionali oscillazioni e logiche che poco hanno a che vedere con la qualità della musica; un resoconto autobiografico, a tratti esistenzialista e saturnino, che sa tanto di bilancio (parziale, sia chiaro….).

E poi l’Italia, quella dell’estate del 1983 (cioè “gli anni Ottanta colti in una fase in cui non erano ancora quel brutto cliché cafone con cui li si è poi storicizzati”, come lo stesso De Luca ha dichiarato da qualche parte) alle prese con le beghe politiche (ma va’…), con i colpi di coda del decennio precedente, a pochi anni di distanza dal ’77 per giunta, annata piuttosto rovente del lungo sessantotto italiano.

Anni formidabili

“Un’estate al mare” di Giuni Russo del 1981 lo lasciava intuire: i tormentoni avrebbero colonizzato da lì in avanti le vacanze degli italiani e favorito gli amori balneari pronti a sbocciare nelle più amene località sparse per la penisola.

L’anno prima, Battiato (ci perdonerete se ultimamente non facciamo altro che evocarlo) con La voce del padrone aveva sbancato il milione di copie vendute, primo degli italiani a farlo, e riempito delle sue sofisticazioni di massa l’estate della vittoria del Mundial, con Pablito Rossi eroe nazionale, il bravo Pertini a urlare “non ci prendono più…” e tutta la retorica strombazzante che le vittorie pallonare portano con sé, in un paese dove il calcio è di ogni nefandezza governativa l’unico vero lavacro.

Abbigliati con gusto ricercato e innovativo, uno più giocoso e dadaista, Johnson, l’altro più serioso e ammiccante, Michael, in piena estate i due se ne escono con un pezzo tanto allegro quanto inquieto che nel giro di qualche settimana conquista la vetta delle classifiche e lancia il duo torinese nello star system nazionale e non solo (il successo gli arriderà anche in Europa e Sudamerica).

“Vamos a la playa” è un ciclone che si impone ben oltre le proprie qualità di canzone pop: nel ritmo incalzante e godereccio, capace di spingere chiunque a intonarne la melodia, si insinuano timori e angosce tipiche del periodo, una su tutte la paura del nucleare, dell’estinzione, della fine dell’essere umano così come abbiamo imparato a conoscerlo.

Bagliori nucleari che abbronzano, pizze radioattive che sfamano, tutta la canzone concorre a sublimare l’irreparabile di un pianeta immediatamente dopo l’esplosione, con esseri umani già alle prese con uno stile di vita ben diverso, sicuramente tutt’altro che desiderabile.

A pensarci, la prefigurazione di un futuro che, con tutte le forze di cui siamo provvisti, ci ostiniamo a rinviare.

Che nelle canzoni dei Righeira ci sia sempre la necessità di letture di secondo livello, guardandone oggi a ritroso il percorso artistico, è quasi banale affermarlo.

1985, due anni dopo, “L’estate sta finendo”, giro di sax dell’immenso Claudio Pascoli (quello che suonerà con tutti, pure con De André e Ivan Cattaneo, e se state pensando al tema di “Polisex” ci avete azzeccato, è suo) e boom, un altro successo, si direbbe l’ultimo di quelle proporzioni dei nostri, sempre più in crisi, inadeguati com’erano a gestire il proprio successo e a liberarsi dalla macchina tritatutto della discografia, che li voleva sempre uguali, in gabbia.

Fabio de Luca

Anche qui, liberandoci dalle catene ideologiche che hanno mortificato la canzone riducendola a un revenant uguale a sé stesso, cogliamo nelle pieghe di una melodia francamente perfetta una tale malinconia da indurre al pianto già dall’abbrivio.

Quel sapore vintage di riproposizione degli anni Sessanta che aveva contagiato altri autori (vedi Alberto Camerini, con le sue sonorità rock n’roll al silicio, o le cover di brani del passato del già citato Cattaneo) in “L’estate sta finendo” giunge a compimento e cristallizza i Righeira in un moto perpetuo dal quale non riusciranno a venire a capo.

Certo, ci saranno ancora album e concerti, ma gli scazzi prevarranno fino alla litigata odierna che impedisce ai due di avere un qualsivoglia rapporto di reciprocità, da cui il nostro dispiacere di ascoltatori e di lettori, ché avremmo voluto tanto sentire la versione di Michael, purtroppo assente assai illustre per non sentirne il peso.

Ad ogni buon conto, viva i Righeira e a Dio piacendo anche quest’estate li ascolteremo prorompere da qualche diffusore: ancora oggi “la nuova onda e là”.

(Alberto Scuderi)

Questo articolo appare anche su Astermagazine, per reciproca volontà degli autori ed editori.