La Top 7 delle migliori canzoni di Feist

“Multitudes”, il nuovo album di Feist, è uscito da qualche giorno e quello della cantautrice canadese è un ritorno “di peso”: quando anche le uscite vengono centellinate in maniera così oculata, ogni album è da soppesare con cura. Intanto abbiamo iniziato a noi a fare un recap delle canzoni per noi più belle o significative di Feist, così da rinfrescarci la memoria, il nostro solito giochino della Top 7. Buona lettura (e riascolto).

7. “It’s Cool to Love Your Family” (da “Monarch (Lay Your Jewelled Head Down)”, 1999)

Siamo nei ’90, anche se ancora per poco, e si sente: l’esordio di Feist è già un buon viatico di quello che sarà la cantautrice canadese, variegato anche se tendente all’acustico e al vocale, ma proprio perché di matrice Nineties pure l’energia (indie)rock vuole la sua parte, come nell’apertura di “It’s Cool to Love Your Family”: uno stoppato che potrebbe rimandare alla migliore PJ Harvey introduce un brano misurato nella strofa e lasciato andare nel ritornello, con degli ingressi di violini un po’ troppo invasivi che denotano una produzione un po’ massimalista ma va bene così: è da lì che Feist costruisce poi tutto.

(Paolo Bardelli)

6. “How Come You Never Go There” (da “Metals”, 2011)

Siamo nel 2011, Feist non si sente da quattro anni e lancia quello che sarà l’unico singolo di “Metals”. Io nel frattempo sono all’estero, mi ostino a rimanere su linee più classiche, tranne quando mi avvicino alle musiche di chi vive in quei posti, per poi non riuscire mai a farle mie. Quel singolo me lo perdo, e come spesso accade se delle premesse non ne so nulla, perdo anche il disco.

Quando ascolto “How Come You Never Go There”, mi rendo conto di quanto Feist sia in grado di costruire brani sul filo della classicità, percorrendo però una strada tutta diversa da quella che mi aspetto. E mi chiedo quanto possa contare, l’aver respirato l’odore dell’arte fin dalle fasce, in mezzo a quel sapersi destreggiare tra suoni sospesi e ritmiche allusive.

(Antonia Salcuni)

5. “Any Party” (da “The Pleasure”, 2017)

“The Pleasure” (2017) è forse l’album dove Feist ha osato maggiormente mettere a nudo la propria interiorità. Da emozioni cupe, espresse attraverso elementi strumentali e vocali essenziali, alla ricerca disperata di quel piacere evocato nel titolo, con costruzioni articolate e a tratti sontuose, composte da parti corali e accompagnate anche dalla presenza di rumori, suoni e fruscii. Un album che appare sempre in bilico tra spinte diverse, che offre, dal punto di vista dei testi, riflessioni personali e stralci di vita. Oscillazioni dicevamo, evidenti sia sul pianto sentimentale che su quello sonoro. Tra i vari momenti contenuti nel disco, “Any Party” è uno di quelli che meglio esprime questo trascorrere di stati d’animo: dalla confessione iniziale all’ascendere progressivo di cori, synth e chitarre. Se volessimo racchiudere l’universo di Feist questo potrebbe essere un buon punto di partenza. Ma è lei stessa a metterci in guardia in un altro brano, rimescolando le carte e prendendo le distanze, ricordandoci, che, dopotutto, un uomo non è la sua canzone (“A man is not his song”).

(Eulalia Cambria)

4. “Borrow Trouble” (da “Multitudes”, 2023)

“Borrow Trouble” merita un posto tra i brani più affascinanti di Feist perché, a differenza del repertorio largamente acustico di “Multitudes”, si inserisce in una tradizione musicale – quella dell’indie rock canadese degli anni zero – foriera di band come Arcade Fire e Broken Social Scene, tanto corali quanto visionarie. Nuove per quel momento ma pronte a restare. E “Borrow Trouble” è una canzone che sicuramente si farà ricordare nel tempo, ai livelli di “Pleasure” (la sua idea di blues) o “The Limit To Your Love” (tra Serge Gainsbourg e Leonard Cohen); questa volta si ammirano panorami new-wave nel diluvio di archi e sax, ma sono immagini purificatorie, necessarie. I turbamenti vissuti con la recente maternità e la perdita del padre si fanno sentire in versi quali “I dropped like a stone/Like a bag of dead weight/So good at picturing the life that I was gonna be left out of/Rather than the one I’d made”, un rollercoaster che unisce il David Bowie di “Heroes” ai Galaxie 500 di “This Is Our Music”.

(Matteo Maioli)

3. “1 2 3 4” (da “The Reminder”, 2007)

Di “The Reminder” dovremmo rimarcare la bellezza di tutte le canzoni, ma bisogna fare delle scelte: posto che alla fine in questa Top 7 mancherà “My Moon, My Man”, e sarà un’esclusione dolorosa, allora “1 2 3 4” diventa l’attestato a Feist di aver scritto la canzone filosoficamente perfetta da un punto di vista della leggerezza: non si può rimanere apatici di fronte al saltellare del banjo e del pianoforte che esplode in quell’apoteosi finale fatta di trombe, violini, vocalizzi e “la la la” che può essere inserita nell’olimpo dei finali che deflagrano in miriadi di colori alla maniera di “Chicago” di Sufjan Stevens. E la parte “strana” è che è una canzone che parla di speranze adolescenziali frustrate (“teenage hopes are lying at your door”): quando i soldi che hai nell’età adulta non ti garantiscono l’amore o, meglio, la felicità (“Money can’t buy you back the love that you had then”) allora non rimane che cantare una filastrocca da fanciulli e iniziare a contare sull’amore di turno (“One, two, three, four / Tell me that you love me more”). Insomma, a prenderla così come viene.

(Paolo Bardelli)

2. “Mushaboom” (da “Let It Die”, 2004)

Tra la metà degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, dopo un periodo impiegato a disseminare una serie partecipazioni a vari progetti e collaborazioni (da Peaches e Gonzales, fino al collettivo Broken Social Scene), nel gennaio 2004 Feist pubblica “Let It Die”, secondo album solista. Passato quasi in sordina l’esordio, “Monarch (Lay Your Jewelled Head Down)” (1999), intriso di sonorità più acerbe e spigolose, con questo lavoro raggiunge la cifra che caratterizza la sua produzione matura: un pop cantautoriale arioso e raffinato, arricchito da svariate influenze. Archiviati, ma mai completamente accantonati, i trascorsi punk-rock (che le hanno permesso, a diciotto anni, di aprire niente meno che ai Ramones!), “Let It Die” si distingue per la presenza di accenti folk, jazz e bossa nova. Ed è proprio in relazione all’uscita del disco che si materializza anche il definitivo successo di pubblico: “Mushaboom”, la traccia più catchy contenuta all’interno dell’album, con un ritornello che rimane piantato in testa, complice anche uno spot tv, diventa uno dei singoli più conosciuti della produzione di Feist. Il brano descrive la voglia di vivere il presente, accantonando le aspettative dell’età adulta (“It may be years until the day/My dreams will match up with my pay”). E se troppo a lungo “Mushaboom” è rimasta a risuonare nelle vostre cuffiette, potreste variare l’ascolto con ben quattro differenti remix, contenute nell’album “Open Seasons” (2006).

(Eulalia Cambria)

1. “I Feel It All” (da “The Reminder”, 2007)

Terzo singolo estratto da The Reminder, “I Feel It All” non ha avuto una fortuna paragonabile al suo diretto predecessore “1234”.  Credo però sia più rappresentativo della poetica della sua autrice: innervato delle tensioni che animano tutta la sua produzione, in bilico costante fra lo slancio e l’introspezione. Una canzone che innanzitutto è urgenza di vivere, di “sentire” nel bene e nel male la vita sulla propria pelle: sarò io quella che mi spezzerà il cuore, canta Leslie rivendicando il diritto a complicarsi le cose, sbagliare, amare, imparare, dimenticare tutto.

Il suono del brano è Feist nella sua veste più immediata: la sua chitarra ritmica nervosa, rauca su una ritmica essenziale costituiscono l’ossatura lo-fi su cui si snodano i cori, le brevi divagazioni vocali che Leslie sovraincide moltiplicando sé stessa, facendosi eco e sfuggendosi al tempo stesso. Ruvido e appena imbellettato di armonie vocali, un brano di aspra dolcezza che getta un ponte fra l’irruenza indie giovanile e l’introspezione che verrà con “Metals” e “Pleasure”.

(Stefano Folegati)