La Top 7 delle canzoni dei Bon Iver

Manca una manciata di giorni al ritorno in Italia dei Bon Iver, il progetto di Justin Vernon nato prima solista e poi trasformatosi in una vera e propria band nel corso degli anni, senza il quale gli anni Dieci sarebbero stati senza dubbio musicalmente più poveri. L’appuntamento per il live è per il 5 novembre al Forum di Assago di Milano e per l’occasione abbiamo stilato una delle nostre Top 7 celebrative: ecco quindi la lista delle nostre sette migliori canzoni a firma Bon Iver. Buona lettura e buon ascolto!

7. “Faith”, da “i,i” (2019)

Quando ascolto certi lavori, penso che non abbiano nulla a che fare con la meccanica dei corpi materiali, le canzoni mi scorrono dentro come se non percepissi più distinzione tra le mie parti e le loro, non comprendendone i movimenti. Non parlo dei violini, della drum machine nè dello sperimentalismo che, avendo toccato qualsiasi scena, non vedo perché dovremmo bandirlo da quella folk. Parlo di lavori dove chi compone è assorto nelle sue astrazioni, ed è chiaro. Prendete Faith, con tutti quei cori che sono dubbi messi tra parentesi. Il brano si apre e si chiude in dissolvenza, intrappola l’altro nel suo stesso pensiero circolare dove tutto si ripete ritmicamente, come sull’altalena, e si rimette in marcia. Fino a quando, a quel che s’incontra nel mezzo, viene voglia di crederci.

(Antonia Salcuni)

6. “29 #Strafford APTS”, da “22, A Million” (2016)

Meravigliosamente dilaniato tra folk ed elettronica, generi le cui differenze andavano sempre di più assottigliandosi proprio grazie al viaggio stesso in cui il progetto Bon Iver si era imbarcato, la nave di Justin Vernon e soci approdava alla tappa di 22, A Million conscia del fatto che le peregrinazioni sonore dell’avventura che il gruppo stava attraversando fossero impossibili da trattenere: pur provando il suo autore a fermarle esse scivolavano via dalle mani come sabbia. Se, come Odisseo, si è spinti da una insaziabile curiositas, occorre avvicinarsi alle Sirene con le dovute precauzioni. Il canto visionario e magico che è “29 #Strafford APTS” è come provare a raccontare un’esperienza simile, qualcosa di cui si ha avuto conoscenza in una situazione di dormiveglia o di ipnosi e di cui si riesce a rendere conto solo confusamente: è un racconto parziale e nebuloso che finisce per avere esso stesso lo scopo di risultare imperfetto e non concluso. Come tessere di un puzzle che a noi si mostrano non solo scombinate ma addirittura coperte, così è l’andamento zoppicante e limaccioso di “29 #Strafford APTS”. La melodia pura e leggiadra che caratterizza il brano prova a disvelare solo in parte ciò che ritmo e arrangiamento, con le loro vibrazioni e dissonanze, mantengono invece ben celato.

(Samuele Conficoni)

5. “The Wolves (Act I and II)”, da “For Emma, Foverer Ago” (2008)

Intorno ai due minuti e quaranta secondi. For Emma, Forever Ago ha già sparato alcune delle sue cartucce più iconiche e arriva questa canzone che appare inizialmente più debole, trasandata, strutturalmente diversa: atto uno e due, ci dice il titolo. Non possiamo trascurare la storia: l’album intero è una espiazione personale, punitiva e contemplativa: il primo disco di Bon Iver nasce da un amore finito e da un isolamento forzato dove con pochi strumenti e tanto tempo nasce uno dei più celebri di racconto delle emozioni in musica che si ricordino. Due minuti e quaranta, si diceva: quelle voci che già componevano la prima parte, una canzone di un autore solitario che pare essere ora due, tre, forse quattro anime  (e voci) prendono forma in note secche circolari di chitarra (non è una melodia, è un inno) e soprattutto, il miracolo, si lasciano sommergere da una ritmica che è batteria, o forse pentole o legno sbattuto, irregolare. Per chi scrive, chiaramente, ma forse è come con le nuvole, il suono di quell’incedere è il rumore della pioggia forte, sulla casetta di legno, dove Justin Vernon diventa Bon Iver.
Minuto quattro e venti secondi, il fiato è sospeso e sommerso da questa intensità: “quello che potremmo avere perso / non mi preoccupa” canta. In quattro minuti, dalla rabbia all’accettazione: diventare adulti.

(Alessio Falavena)

4. “Calgary”, da “Bon Iver, Bon Iver” (2011)

L’utilizzo meticoloso e prudente di una band allargata dopo lo spoglio e melanconico esordio che era stato For Emma, Forever Ago è ciò che di fatto fonda il suono stesso di Justin Vernon dall’inizio degli Anni Dieci a oggi. Nei possibili percorsi alternativi che gli si ponevano davanti dopo Emma, Vernon ha imboccato quello che gli avrebbe permesso di erigere un monumento totalizzante e magnetico, un approccio musicale che ha nella sua intrinseca fragilità e delicatezza le sue stesse fondamenta. I motivi di chitarra e di tastiera si aggrovigliano agli abbacinanti trilli e squilli dell’elettronica e dei synth che creano talvolta un’atmosfera quasi ambient, che dipinge sullo sfondo i chiaroscuri di un rifugio fuori dal tempo e dallo spazio non dissimile al locus amoenus che troneggia sulla cover di Bon Iver, Bon Iver, il disco capolavoro del gruppo. Basterebbe questo per comprendere quale complessa e straordinaria impalcatura sonora dia alla luce l’album, e la splendida “Calgary” ne è un esempio perfetto. Lo scenario onirico e poetico col quale si apre il pezzo concentra presto il suo zoom su chitarre e percussioni. La voce di Vernon, che appare spesso raddoppiata o triplicata, si fa metronomo e strumento fino a fondersi con l’ambiente circostante nel bridge che segue il chorus, quasi annegando in esso e rispuntando fuori all’ultimo, purissima: “Open ears and open eyes”, canta Vernon, finché di lui non resta giusto qualche frammento.

(Samuele Conficoni)

3. “Skinny Love”, da “For Emma, Forever Ago” (2008)

Quella in cui compravo tende arancioni, arricciate e semi trasparenti, è una fase che durò per anni, come quella in cui ascoltavo le canzoni senza setacciarle. Era un pomeriggio ed ero in camera, ricordo. La luce lì era filtrata diversamente, rispetto al resto della casa. La situazione era perfetta per me, il punto è che Skinny Love sarebbe stata speciale anche al buio, tutto il disco lo sarebbe stato. Non era importante sapere che l’autore si fosse rinchiuso a comporlo nel gelo di in una baita del Wisconsin, per apprezzare quel modo così personale di usare il falsetto. Ad ogni picco d’ispirazione, quel plettro mi sembrava di vederlo muoversi. Nel perdere un po’ d’ingenuità, avrei imparato che nel tentar di nutrire una “storia” senza essersi levati quell’altra dalla testa, succede di dover affrontare un amore scarno. Non basta chiudersi in una stanza, nemmeno se la luce è quella giusta, per rendere speciale un ascolto. E i Bon Iver non potevano aspettarsi che il folk dei Duemila avrebbe suonato ‒ per sempre ‒ così.

(Antonia Salcuni)

2. “Blood Bank”, da “Blood Bank EP” (2009)

Frequentemente gli EP che si muovono intorno ai dischi d’esordio sono interessanti: raccontano di momenti di grande creatività, di esperimenti fuori dallo spettro sonoro del disco ufficiale o di colori diversi da quelli che l’artista ci aveva fatto conoscere nel primo incontro. È una canzone che si è scritta da sola, racconta lui stesso, ci piace immaginarlo ora fuori da quei boschi, ora improvvisamente al centro di una scena musicale (da cui saprà stare fuori negli anni futuri, nel suo percorso artistico irrituale) e che sfuma in un fragore di elettricità che racconta molto di quello che accadrà nel secondo disco: dalla sottrazione all’addizione, in sostanza.

(Alessio Falavena)

1. “33, GOD”, da “22, A Million” (2016)

Justin Vernon lascia perdere la chitarra, contatta Carlson per dirgli “Mi piace quello che stai facendo”. Una di quelle considerazioni semplici che, giacchè l’ho pensata, perchè non trasmettertela. Impacchetta 22, A Million con simboli equivocabili eppure chiarissimi, quell’artista lì. L’influenza digitale non accontenta tutti, il nuovo progetto Bon Iver canta come se il chiodo più grosso gli stesse trafiggendo i pensieri; siamo nel 2016. Apro il video ufficiale di 33 “GOD”, il quarto brano in sequenza, quello che se entra ho già deciso cosa farmene, di un disco. why are you so FAR from saving me, Salmo 22.  È un lamento, una preghiera, un ringraziamento, oppure è la confusione di una depressione lasciata a colare? La musica si muove ai limiti dell’indefinito, nell’intensità delle modulazioni e nello spazio che queste decidono di occupare. Nonna, che in chiesa non ci va mai, dice che l’Antico Testamento è una raccolta di storie bellissime. È  davvero unica, l’idea che ci facciamo del dolore. Ma che per congiungersi con quello di qualcun’altro, si potessero sputare preghiere dentro a un vocoder, non l’avrei mai detto.

(Antonia Salcuni)


Bonus Track: “Beth/Rest”, da “Bon Iver, Bon Iver” (2011)

Il 2011 è di “Bon Iver”, il disco con il quale il progetto di Justin Vernon sembra arrivare alla sua massima potenza espressiva – scrivo “sembra” perché di tutto quello che viene dopo, quel giochino a destrutturare e poi a ricomporre melodie seguendo uno strano schema di patchwork sonoro che mette in mostra con l’album seguente “22, A Million”, non v’è ancora traccia. Nel 2011 Bon Iver è ancora e soprattutto sinonimo di ottime, ottime, ottime canzoni struggenti capaci di trasportare una certa tradizione indie-folk-rock nell’era contemporanea: e proprio in questo contesto di immaginari e suoni che si piazza, in fondo a quel disco che ne è appunto la consacrazione, quel corpo estraneo di “Beth/Rest”, questa power ballatona rotonda anni ’80, tutta intrisa di tastieroni e testi dalla sdolcinata ruffianeria. Senza considerare quello che è successo dopo, questo pezzo sembra quasi un segnale, un indizio di un percorso musicale possibile da lì in poi – scrivo “sembra” perché invece, forse per fortuna, Justin Vernon ha pensato bene che sarebbe stato meglio fare altro.

(Enrico Stradi)