Due giorni di ROBOT, tra sperimentazioni e dancefloor

Arrivati alla tredicesima edizione dopo i due anni di COVID, ROBOT Festival si presenta nel 2022 come un contenitore che racconta derive ed evoluzione della musica elettronica negli ultimi 30 anni, senza insistere su una direzione precisa ma aprendosi a ventaglio riuscendo ad accontentare tutti -o quasi- gli amanti dei vari stili, dalla sperimentazione al clubbing.

Anche quest’anno siamo stati media partner della manifestazione, un vero e proprio festival diffuso in vari spazi della città (Accademia delle Belle Arti, Palazzo Re Enzo, Oratorio San Filippo Neri, TPO e DumBO) in un tentativo di restituire a un utilizzo collettivo alcuni luoghi storici della città, e abbiamo seguito le serate del 6 e 7 Ottobre.

Il primo appuntamento di questa doppietta bolognese mi vede catapultato nella centralissima Piazza Maggiore, dove proprio davanti alla fontana del Nettuno sono potuto entrare nelle sale del medioevale Palazzo Re Enzo, in cui la musica inizia presto con il live installativo dei sound artist Riccardo La Foresta e James Ginzburg. Per circa 4 ore i suoni del drummophone (una serie di tamburi connessi a dei tubi motorizzati che creano risonanze con l’aria emessa) di La Foresta e una serie di strumenti a corda (automatizzati e non) di Ginzburg hanno riempito di suono i primi due piani del palazzo, nonostante qualche utente un po’ troppo curioso che batteva con martelletti vari le due postazioni -eddai ragazzi, non è mica la sala giochi di un asilo…

I live, cominciati a stretto giro intorno alle 21 nella sala principale del palazzo, hanno visto susseguirsi Nziria, Lyra Pramuk, Gabòr Lazàr e Loraine James, attesissimo main event della serata; la location, bellissima e imponente, non è riuscita però a rendere giustizia ai vari set qui presentati: un soffitto troppo alto (e una tecnica forse non adeguata?) hanno fatto sì che spesso lo spettro di frequenze presentate da artisti di questo tipo si perdessero in riverberi esagerati, che hanno penalizzato chi come Nziria offre una musica da medio-basse frequenze, che si sono andate a impastare rendendo l’ascolto complicato e a tratti fastidioso. Peccato.

Al netto di questo il pubblico ha particolarmente apprezzato la personalità di Pramuk, al solito elegante e divertente nonostante presenti uno stile serio basato sulle costruzioni armoniche vocali. Fatto degno di nota: il set si è concluso con il remix di Hudson Mowhake di “Tendril”, il brano più catchy dell’album di debutto “Fountain” uscito lo scorso anno per Bedroom Community, che con il suo beat ha scaldato cuori e gambe del pubblico bolognese. Sempre su questa linea, Palazzo Re Enzo si è trasformato in un grande dancefloor per il set conclusivo di Loraine James, che ha presentato quasi in diretta con l’uscita il suo nuovo LP, “Building Something Beautiful For Me”, che unisce un animo dance alla ricerca sonora che la producer inglese porta avanti da anni con tutti i suoi progetti.

Discorso a parte per i Salò, vero higlight della serata: il loro live performativo che ha unito improvvisazioni e brani è riuscito a creare un’aura magica e distopica nella sala a loro dedicata; una grande abbuffata nel quale il pubblico poteva spostarsi a piacimento all’interno del salone e sedersi allo stesso tavolo dove i quattro del collettivo romano (Toni Cutrone, Emiliano Maggi, Giacomo Mancini, Stefano Di Trapani) avevano i loro strumenti e usavano come base. In anni nei quali la performance assume sempre più un ruolo importante nella musica dal vivo, la via mostrata dai Salò è da esempio a tanti nomi più grandi e prezzolati che girano nei vari cartelloni con pochi risultati nei fatti. Ancora una volta un applauso.

Avanti veloce al giorno dopo dove al DumBO ci si è ritrovati di nuovo insieme, in tanti, ad accalcarci in uno spazio al chiuso -e fatemelo dire: che bellezza, era ora- per sudare e ballare insieme. Anche qui sono presenti due stage, nei quali si sono susseguiti Laura Agnusdei con Daniele Fabris, Ben Frost, Caterina Barbieri, Giant Swan e il back to back DJ set di Skee Mask con gli Zenker Brothers di Ilian Tape (che ahimè ho quasi totalmente perso perchè l’ora era tarda, le gambe stanche, e ormai mi ero fatto la bocca di tornare a Firenze direttamente in nottata).

Dopo il live sempre elegante e ricercato nel quale trame acustiche ed elettroniche di Agnusdei e Fabris si intrecciano, è il turno di Ben Frost, suo malgrado protagonista della serata per i ripetuti problemi tecnici che hanno minato un set dal sound totalmente aggressivo dove pad ambient, basse pesanti come martellate sul mento e momenti noise hanno stregato l’ascoltatore. Sarebbe potuto essere di più, ma ce ne facciamo una ragione: non è certo colpa dell’artista quando la tecnologia lo pianta in asso regalandoci solo un assaggio di quello che aveva in mente.

Caterina Barbieri è al solito la diva dell’elettronica internazionale, con il suo ormai consueto costume futuristico e gli arpeggi modulari che l’hanno resa celebre e apprezzata in tutto il mondo lascia a bocca aperta il pubblico del DumBo, dimostrando che anche artisti di ricerca possano arrivare alle orecchie di un grande pubblico e fare breccia nel loro cuore. Caterina: sei tutti noi (e scusa se ti chiamo per nome anche se non abbiamo mai mangiato insieme).

A questo punto sale sul palco la mia hot take di questi due giorni, quei Giant Swan che per anni mi hanno stregato con la loro electro sporca, decostruita, distorta che nei loro dischi è riuscita a creare un sound che pur rifacendosi a certi stili del passato ha saputo a ogni occasioni trovarsi convincente, attuale, decisa e poi live… niente. Che succede? Com’è possibile che un duo del genere di fronte al pubblico perda quella sua spinta e quel mordente che me li hanno fatti tanto amare proponendo un live set techno sì sporco, ma poco differente da tanti di quei nomi più modaioli che affollano le programmazioni di manifestazioni di settore ben più mainstream? Un colpo basso al mio morale inferto dal duo inglese. Complimenti.

Di Skee Mask e degli Zenker Brothers come detto sopra posso scrivere ben poco, essendomi dato alla fuga verso l’autostazione intorno alle 2.30, ma sono sicuro che il pubblico bolognese si sia divertito come mi è già capitato sentendo il dj e producer tedesco qualche anno fa. Lunga vita alla famiglia Ilian Tape.

Detto questo, che conclusioni possiamo trarre da questa due giorni bolognese? Che se costruito, anche in Italia esiste un pubblico; che questo, se direzionato, riesce ad apprezzare tanto i set più tipici come quelli sperimentali o di ricerca; che se presentati in modo giusto c’è spazio per altro nel mondo del ‘clubbing’ italiano oltre a quella technaccia tutta uguale mani al cielo e manierismo che sembra l’unico modo per riempire una venue.

Buona fortuna agli organizzatori di ROBOT per le prossime edizioni, e mi raccomando: se scegliete location fighe, premuratevi che l’acustica valga anche il prezzo del biglietto.

Foto di copertina e nell’articolo tratte dal profilo Facebook di ROBOT Festival

(Matteo Mannocci)