[#tbt] I Kraftwerk non sono (più) umani

Di questi giorni la notizia che i Kraftwerk hanno rimandato le due date italiane del loro 3D Show, che avrebbero dovuto tenersi nel corso di questo mese a Firenze e Genova, alla prossima estate. Brutta notizia per chi, come me, mai è riuscito a incrociare dal vivo Ralf Hütter e i suoi collaboratori e vorrebbe mettere una spunta accanto al loro nome sulla lista dei live a cui ha assistito.

Proprio in questi giorni per calarmi in atmosfera avevo ripreso ad ascoltare i vari album del gruppo dai più recenti fino alle prime uscite –dulcis in fundo, ovviamente- e in questa cavalcatatra i decenni di storia della musica ho notato una cosa che mi ha destabilizzato: sulle piattaforme di streaming non si trovano i primi tre, bellissimi, album del gruppo di Dusseldorf.

Non che abbia fatto chissà quale ricerca incrociata, ma tendo a dedurre che se non sono presenti nel catalogo di uno dei più importanti servizi di streaming musicale (non di quello che investe 100 miliardi in tecnologie belliche, l’altro) “Kraftwerk”, “Kraftwerk II” e “Ralph and Florian” non risiedano nei cataloghi virtuali di milioni di persone che ascoltano musica solo attraverso queste piattaforme.

Su YouTube ancora si trova tutto, grazie al cielo

Che sia per una questione di diritti sui master o altro questa assenza è significativa: i Kraftwerk, nell’immaginario di chi vi si approccia oggi attraverso lo streaming, sono semplicemente i men-machines che sono poi diventati icone della musica elettronica (e non solo) a livello mondiale.

Ma per arrivare a quella autobahn tra l’umano e il meccanico, i musicisti tedeschi hanno attraversato delle tappe importantissime che testimoniano un momento incredibile della storia della musica, nel quale pop e musica di ricerca si incontravano partorendo lavori indimenticabili della discografia occidentale.

1970: in una Germania con un panorama artistico/intellettuale attivissimo, Ralf Hütter e Florian Schneider pubblicano su Philips “Kraftwerk”, album di esordio con i percussionisti Andreas HohmannKlaus Dinger (con il secondo che insieme al chitarrista Michael Rother, anche lui nella formazione live del periodo fonderà i Neu!). Il disco, che presenta 4 lunghe tracce a metà tra composizione e free jam, riflette alla perfezione il clima musicale di quegli anni, passando da momenti più psichedelici adatti ai festival pop dell’epoca a un minimalismo di ispirazione elettroacustica. Forse non il più memorabile tra i dischi kraut, ma testimonianza immortale dei primi passi di un nome che avrebbe cambiato una volta per tutte la storia della musica.

Anche nei successivi “Kraftwerk II” e “Ralph and Florian” si ripetono le stesse dinamiche, lasciando sempre di più andare la struttura rock in favore di una sempre più elettronica, approfondendo il rapporto tra sintetizzatori e ritmiche e su grandi momenti armonici. Tre album in tre anni prima della grande svolta di “Autobahn”, l’album che immortalerà per sempre i Kraftwerk nella leggenda, nei quali già si trovano le fondamenta di tanti stili e sottostili che sarebbero nati negli anni a seguire.

Tutto questo per dire: i Kraftwerk non sono sempre stati dei robot. I Kraftwerk sono anche stati dei giovani musicisti, colti quanto ironici e psichedelici, che hanno regalato al mondo brani iconici e la base di quello che sarebbe stato il mondo dopo di loro (oltre al logo di VLC). Recuperate in ogni modo possibile la discografia dei vecchi ragazzi di Dusseldorf, mangiatela e digeritela, invece di farvi schiacciare dalla proposta di catalogo dei servizi di streaming.

E, se possibile, qualcuno faccia una ristampa, che solo a controllare i prezzi delle vecchie edizioni su Discogs mi sento male…

(Matteo Mannocci)