[#tbt] “Show Me All Around the World”: Bob Dylan tra 1980 e 1985

Ieri 13 ottobre 2021 sono stati cinque anni dallo storico, rivoluzionario Premio Nobel alla Letteratura assegnato a Bob Dylan “for having created new poetic expressions within the great American song tradition”. Celebriamo l’anniversario scrivendo dell’ultima uscita d’archivio del cantautore.

Il Volume 16 della celebre Bootleg Series di Bob Dylan, la serie di cofanetti d’archivio che raccoglie materiale quasi interamente inedito – registrato in studio e dal vivo – del cantautore, iniziata nel 1991 con la pubblicazione dei primi tre volumi, è uscito lo scorso 17 settembre. Intitolato Springtime in New York (1980-1985), si concentra sulla prima metà degli Anni Ottanta e dimostra come per il cantautore statunitense non siano mai esistiti momenti di incertezza o di scarsa ispirazione. La qualità di scrittura, sia lirica sia musicale, di Dylan travolge tutto il resto, rendendo ogni singolo brano contenuto in questo box set – 5CD nell’edizione deluxe – degno di essere ascoltato e studiato. Sono anni evidentemente segnati dalla svolta e contro-svolta religiosa dell’autore, che, dopo aver abbracciato il cristianesimo evangelico nel 1978, l’aveva apparentemente abbandonato nel 1981 per avvicinarsi all’ebraismo. Anche in questo box siamo di fronte a un’ampia selezione di take alternativi, fino a oggi mai pubblicati, di canzoni già note; di alcune composizioni mai circolanti neppure su bootleg pirata, come le rehearsals in vista delle tournée del 1980 e del 1981; di un paio di performance dal vivo del 1984, tra cui la memorabile esecuzione di “License to Kill” insieme ai Plugz al David Letterman Show [1]. Al centro del box vi sono le sessioni di registrazione di alcuni album particolarmente sottovalutati della carriera del songwriter, vale a dire Shot of Love, Infidels ed Empire Burlesque.

Analisi critica retrospettiva di un’ennesima primavera artistica, Springtime in New York setaccia gli archivi degli anni durante i quali furono pubblicati i tre album sopra menzionati, escludendo Saved (1980), ampiamente approfondito nel Bootleg Series 13 – Trouble No More (1979-1981), box di 9 CD e 1 DVD nella sua edizione deluxe. Esso, partendo da alcuni brani registrato durante un soundcheck durante il tour del 1978, si occupava del “periodo gospel” dell’autore, dei tre album usciti in quel triennio e degli suoi show che Dylan tenne in quegli anni, i primi (1979 e prima parte del 1980) in larga parte costituiti da brani a tema religioso composti in quel periodo, fino a quando, nell’autunno ’80, Dylan scelse di inserire nuovamente in scaletta anche brani composti prima del ’79, cover, brani tradizionali, fino ad arrivare alle sessioni del 1981 e al tour del medesimo anno [2].

Non è un caso, dunque, che nella timeline della carriera dylaniana questo box set intersechi in piccola parte il già citato Volume 13. Nell’autunno 1980, come detto, Bob Dylan s’imbarca in un tour che battezza A Musical Retrospective: pur coerenti con il tour dell’anno e mezzo precedente, le atmosfere sono più rock e più bluesy, pur essendo l’apporto dei cori gospel sempre fondamentale, e in scaletta ritornano brani autografi composti prima del 1979 e alcune cover di rilievo, come “Abraham, Martin and John”, presente in questo box set in una versione tratta dalle rehearsal pre tour cantata insieme alla grande Clydie King, che Dylan avrebbe definito la sua «ultimate singing partner» [3] (e lo ha detto uno che tra le sue singing partners ha avuto Joan Baez). Le rehearsals – alcune risalenti al 1980, altre al 1981 – mostrano in quale fase di transizione si trovasse Dylan, ancora abbagliato dalla luce della conversione ma lacerato da conflitti interiori di carattere personale, religioso e artistico. Proprio “Abraham, Martin and John”, insieme a “Jesus Met the Woman at the Well”, è il brano che collega il Volume 13 a questo: una versione pianistica della prima e una versione full band della seconda, entrambe filmate in studio, sono infatti visibili nel documentario allegato al già citato box set del 2017.

Nel primo disco del box, oltre a questo, incontriamo alcune gemme mozzafiato, come “Let’s Keep It Between Us”, brano che Dylan avrebbe suonato in concerto diverse volte nel 1980 ma che non avrebbe mai pubblicato ufficialmente, i cui movable lyrics che cambiano nelle diverse performance mostrano quanto intenso e incerto fosse il lavorio dietro la sua composizione, un labor limae maniacale e apprezzabile. Intensa e travolgente è anche “Mary of the Wild Moor”, rielaborazione dylaniana di una ballata del XIX secolo resa celebre da Johnny Cash, e, anche se all’appello manca “The Rainbow Connection”, incisa nel medesimo periodo ma qui non inserita, ci sono le straripanti esecuzioni di “Sweet Caroline”, brano firmato da Neil Diamond, e “Mystery Train”, resa celebre da Elvis Presley, quest’ultima con Ringo Starr alla batteria.

Il puzzle che è Bob Dylan, come ormai si sa, ha un numero di tessere pressoché infinito. Un altro pezzo particolarmente cruciale di questo incredibile puzzle che questo volume presenta è composto dalle sessioni di Shot of Love, album sottovalutato e ambizioso uscito nel 1981. Il già citato Volume 13 della Bootleg Series conteneva molti pezzi tratti da esse, tra cui uno splendido take demo di “Every Grain of Sand” e un take appassionato di “Caribbean Wind”, due capolavori del periodo. Questo Volume 16, purtroppo, rinuncia a pubblicare una versione fondamentale di quest’ultimo brano, incisa nel marzo ’81 e circolante su bootleg non ufficiali (e reperibile anche su YouTube) ma include un take mozzafiato di “Angelina”, canzone pubblicata per la prima volta nel Volume 3 della Bootleg Series uscito nel ’91, anch’essa piena di immagini allegoriche difficili da decifrare e brano particolarmente cruciale per capire le preoccupazioni di carattere religioso che il cantautore stava sperimentando.

Altrettanto affascinanti sono gli altri pezzi tratti dalle medesime sessions. “Don’t Ever Take Yourself Away”, un outtake che qualche anno fa era comparso nella colonna sonora della serie TV Hawaii Five-O, un reggae trascinante e poetico che mostra quanto in quel periodo Dylan fosse attratto da questo genere musicale, e a prova di ciò si ascoltino il Live at Budokan del 1978 e le versioni live di “Knockin’ on Heaven’s Door” del 1981. Come sempre accade con Dylan, l’abilità di far propri pezzi altrui è un marchio di fabbrica. Di “Let It Be Me”, una cover che Dylan aveva già registrato nel 1969 e pubblicata su Self Portrait (1970), viene incluso un take che era stato pubblicato come B-side di un 7″ uscito in Europa nel 1981. Questa interpretazione è di una potenza e di una sincerità lancinanti: pare che il brano appartenga a Dylan, che lui l’abbia scritta pochi minuti prima d’interpretarla. Particolarmente riuscito è anche il mix alternativo di “Lenny Bruce”, che contiene versi emozionanti e una splendida intersezione tra voce e strumenti. Proprio nella tournée 2019 Dylan aveva ricominciato a suonare il brano dal vivo.

La tranche di box set dedicata alle sessioni di Infidels è quella che occupa più spazio, è il vero traino dell’opera, e riesce a offrire una panoramica particolarmente ampia e approfondita sulla genesi di un disco quasi capolavoro la cui produzione, stando a quanto si sa, era stata inizialmente affidata a Frank Zappa (che rifiutò cordialmente). A produrre l’album e a suonarvi fu invece Mark Knopfler, fresco dei successi coi Dire Straits e acclamato dalla critica come uno dei migliori chitarristi della sua generazione. Fondato su un sound quasi “caraibico”, evidente anche nelle sessioni qui pubblicate, prive degli elementi finali della produzione, ma a mostrarsi in tutto il loro splendore sono le atmosfere blues che, come ombre inquietanti, penetrano quasi in ogni canzone. Esemplare, ovviamente, è il capolavoro inciso quell’anno, “Blind Willie McTell”, composizione scandalosamente esclusa dal disco, una cupa riflessione sugli Stati Uniti e sul legame tra popolo afroamericano e popolo ebraico: «this land is condemned / all the way from New Orleans to Jerusalem». La celebre take 5 – già circolante su bootleg non ufficiali – è molto differente da quella pubblicata nel 1991 sul Volume 3 della serie. Lì solo il pianoforte di Bob, la sua voce e la chitarra acustica di Knopfler troneggiavano; qui, invece, c’è il gruppo al completo, la chitarra è elettrica, i BPM aumentati e c’è un’armonica velenosa e pungente. Come anticipazione di questo box set, la Third Man Records di Jack White ha pubblicato un 45″ con due versioni del brano, questo stesso take 5 e un take 1 – registrato alcune settimane prima [4] e non compreso poi in questo box set – dall’atmosfera spettrale, dove il tempo sembra fermarsi. Anche gli altri outtake di Infidels sono di una qualità eccelsa. “Lord Protect My Child”, un take della quale fu pubblicato nel ’91, squarcia le nuvole come un raggio di sole in mezzo alla tempesta. Ciò che rende unico Dylan, oltre al suo talento nei testi, è la sua delivery unica: sputa fuori le parole come nessun altro mondo, parole che a noi arrivano come frecce.

L’avvicinamento alla religione ebraica, che numerose biografie dylaniane collocano all’inizio Anni Ottanta [5], apre un capitolo nuovo nella storia artistica e privata del cantautore, ulteriormente diverso da quello iniziato nel ’79. L’allegoria si fa sempre più presente ed emerge con forza in composizioni complesse come “Jokerman”, primo solco di Infidels, che nel corso delle registrazioni subisce una serie di revisioni che modificano profondamente il suo testo. Il «king among nations» – così canta Dylan nel take qui inserito – sarebbe diventato un «friend of the martyr» nella versione pubblicata al tempo. Una romantica e cinica versione alternativa di “Sweetheart Like You” non si sofferma sul cappello della donna ma sui suoi stivali: ci troviamo in un brano che costò a Dylan qualche accusa di sessismo per il verso «a woman like you should be at home, that’s where you belong», che non viene mai considerato entro il contesto in cui viene cantato, riferito a una donna alla quale il cantante augura di «taking care of somebody nice who don’t know how to do you wrong»: nient’affatto, insomma, la segregazione ma, anzi, la speranza di proteggerla da chi si approfitta di lei e la maltratta. Dylan è ispirato e ha le idee molto chiare. Anche il take alternativo di “I and I” è accattivante: la potenza poetica racchiusa dal brano emerge con forza grazie all’ottimo arrangiamento. Per non parlare poi delle ariose versioni di “Don’t Fall Apart on Me Tonight”.

Mostrami il mondo tutto intorno è ciò che sembra gridare Dylan, a sé stesso prima che a chiunque altro. È perennemente alla ricerca di qualche possibile ipotesi di verità e prova a formularle in quello che scrive. «I’ve made shoes for everyone, even you, while I still go barefoot», canta sempre in “I and I”, verso la chiusura, in un verso epigrafico che ha una risonanza immensa. È una difficoltà enorme provare a rendere conto di tutto quello che esiste e che accade, ma Dylan sembra nutrire la febbrile necessità di dare un ordine a questo flusso di magma, di far diventare cosmos il chaos. Questo tentativo emerge un po’ ovunque nel box – e nella carriera di Dylan – ed è in piena continuità con una frase che aveva pronunciato quasi venti anni prima: “I accept chaos” [6]. In un ribollire di pensieri nascono “Too Late” e “Foot of Pride”, brano che è l’evoluzione musicale e lirica della prima. “Too Late” ha un testo misterioso, evocativo e poetico e un andamento narrativo frammentario e complesso, che in “Foot of Pride” si amplifica ulteriormente. Gli archivi dylaniani regalano una versione estesa, integrale, di “Death Is Not the End”, brano che sarebbe stato pubblicato soltanto nel 1988, e di un mix alternativo di “Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love)”, incisa nel 1985, più riuscito di quello scelto per Empire Burlesque. Altrettanto bella è “Someone’s Got a Hold of My Heart”, sua prima incarnazione, che emana una sensazione di indefinito e di inquieto, una versione della quale era già stata pubblicata nel ’91. Dal tour 1984 viene selezionato soltanto un brano, “Enough Is Enough”, straripante e frizzante, e a, suo fianco compare la già citata esecuzione di “License to Kill”, suonata insieme ai Plugz, in una curiosa veste punk rock.

Mentre è alla ricerca di possibili risposte, pur mai definitive, nell’ultima parte del cammino che dal 1980 conduce al 1985 Dylan s’imbatte in una “New Danville Girl”. Il brano, inciso nel 1985 e già circolante su bootleg pirata, dalla complessità narrativa notevole e dalle brillanti trovate liriche e musicali, è scritto insieme Sam Shepard ed è una early version di “Brownsville Girl”, che sarebbe stata pubblicata su Knocked Out Loaded un anno dopo in forma differente, inicsa di nuovo e col testo in parte cambiato. “Show me all around the world”, mostrami il mondo tutto intorno, canta Dylan nel chorus, il coro gospel al suo fianco che si eleva come in una preghiera. È una magia fulgida e miracolosa, uno di quei momenti di grazia presenti ovunque in questo box set come nel corpus dylaniano, un crossroads dove s’incontrano gli antichi greci e latini, Dante, Shakespeare, Eliot, la religione cristiana, quella ebraica, la cultura afroamericana, Woody Guthrie e Rimbaud. “Dark Eyes”, brano che chiude Empire Burlesque, qui presentato in un take alternativo altrettanto riuscito, presenta una riflessione sentita, che implica un’accettazione e al tempo stesso un rifiuto del ruolo di profeta visionario che il mondo ha cucito addosso a Dylan più volte: «They tell me to be discreet / for all intended purposes. / They tell me revenge is sweet / and from where they stand I’m sure it is». Così canta il poeta prima di soffiare ancora una volta nella sua armonica.

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[1] Cfr. http://www.bjorner.com/DSN06970%20-%201984%20Early%20Sessions.htm#DSN06990.
[2] Cfr. http://www.bjorner.com/DSN05910%201980%20A%20Musical%20Retrospective%20Tour.htm.
[3] Cfr. https://www.rollingstone.com/music/music-news/clydie-king-ray-charles-bob-dylan-singer-dead-777417/.
[4] Cfr. http://www.bjorner.com/DSN06920%20-%201983%20Sessions.htm
[5] Cfr. Scott M. Marshall, Bob Dylan: A Spiritual Life, WND Books, Chicago, 2017, passim.
[6] La frase è presente sul retro di copertina di Bringing It All Back Home, Columbia, 1965.

(Samuele Conficoni)