ST. VINCENT, “Daddy’s Home” (Loma Vista, 2021)

I dischi del 2021 sembrano quasi tutti perfetti, levigati, coesi. Intendo levigati anche quando sono molto ruvidi nei suoni, eh. Del resto, uno ha avuto un certo tempo per lavorarci su. Ha anche risorse da spendere, diciamo, con enorme parsimonia ma anche con attenzione. Ha pure da fare un tipo di pianificazione di quelle che non è né portato, né abituato a dover fare. E poi ha la sensazione di non poter sbagliare, ammesso che in altre fasi storiche sia stato davvero diverso. Insomma, se a qualcuno piacessero i dischi un po’ avventati non credo che troverebbe tanto materiale, in questi mesi.

Ora, il disco di St. Vincent io son qui che lo riguardo da più prospettive e non so se metterlo tra gli impeccabili o magari no. Cioè, formalmente è una macchina d’epoca perfetta, con la quantità di polvere e di ruggine che l’avvicinano all’idea platonica di macchina d’epoca. Sì, ecco, la lettura complementare è che questo disco rappresenta una sterzata, una deviazione importante dal buon “Masseduction”, dall’atteggiamento (e dall’immagine) modernista e dal desiderio di codificare e firmare i canoni del pop contemporaneo. “Daddy’s Home” è perfetto ma è anche una perfetta rinuncia (o un rinvio).

Onore a “Daddy’s Home” e alla sua ambigua perfezione, dunque. Il nuovo disco di Annie Clark può essere una serie della HBO, può essere un’icona col caschetto biondo,  può essere la storia di una star del ’75, di una musa di qualche artista o di una ladra che scappa col malloppo o di una battona di Manhattan di cinquant’anni fa. È tutto questo, con una grafica degna di “Creem”, con  i videoclip che sembrano restaurati, le autoreggenti della copertina, il vinile di bronzo. Tutto il pacchetto di “Daddy’s Home” è materialità tattile. Poi finisce che te lo senti in una piattaforma di streaming ma intanto pensi a quanta materia e quanta forma c’è, o meglio, ci sarebbe. Nell’universo parallelo a cui rimanda e dove è ancora il ’74.

E le canzoni sono perlopiù downtempo, bluesy, suonate benone e con strumentazione che più vintage non si può.
Prosegue la collaborazione con Jack Antonoff in produzione e talvolta scrittura. È retro pop come se davvero non ci fossero ancora stati un punk e una disco su cui prender le misure per tutti gli abiti cuciti dopo. La cosa, se ci si pensa è un gioco, una forzatura o un riuscitissimo esercizio a seconda della prospettiva e dell’umore con cui l’ approcciamo. E a seconda dell’avere in mano il peso vinile di bronzo o uno smartphone, direi. Ma il personaggio St. Vincent continua a risplendere grazie alla sua malinconica (auto)ironia e all’uso consapevole e sottile delle parole e delle storie. Per esempio il titolo allusivamente un po’ torbido non fa altro che riferirsi all’esperienza di scarcerazione del papà di Annie. A tratti, per quanto questo disco fa retromarcia viene da pensare all’esperienza (meno fortunata) degli Arctic Monkeys di “Tranquillity Base Hotel”. Con la title track invece ci viene in mente addirittura “The Dark Side Of The Moon”. I pezzi migliori sono quelli in cui riesce l’incastro tra abiti d’epoca e funk dalla valenza addirittura futuribile. Succede in “Pay Your Way In Pain ” e in “Down”. Un altro mezzo miracolo è “The Melting Of The Sun”, così realisticamente calata in un tempo e in un luogo “altri” che è difficile poi tornare al mondo di oggi. E poi, in mezzo ci sono anche le tracce meno riuscite. Ma quelle le tengono comunque  in piedi il contesto, la cornice e tutta questa struttura che qui è stata predisposta.

70/100

(Marco Bachini)

(Immagine in evidenza: frame del video di “Pay Your Way In Pain” dallla pagina facebook ufficiale di St. Vincent)

19 maggio 2021