SQUID, “Bright Green Field” (Warp, 2021)

Forse mai prima delle recenti riaperture le metropoli ci erano sembrate ubicazioni così scevre e aliene, quasi come se la pandemia avesse obnubilato il sublime industriale ballardiano delle grandi città e i cocci da raccogliere di una nazione in piena frattura post-brexit. Se queste sono le premesse, l’album di esordio degli Squid è tempo in pieno sesto.

Eterodossia nell’eterodossia, gli Squid iniziarono nel 2017 in ottimo spirito psych-rock, con un piede nella discografia di Robert Wyatt e l’altro in quella dei Talk Talk. Fu però la loro conversione alla scena post-punk revival londinese a renderli noti, ad assicurargli uno spazio nella compilation “Speedy Wunderground – Year 4”, oramai pietra miliare del genere, accompagnati dai chiacchieratissimi black midi, Tiña e Black Country, New Road. Se di questi ultimi si era già parlato in occasione del loro ottimo debutto a inizio anno, il post-punk a squarciagola di progetti come l’EP “Town Centre” del 2019 inquadrava gli Squid come parte di un’eccitante scena, battezzata “New Weird Britain” e sorta dal fermento culturale del pub The Windmill, a Brixton, testimone mai come ora dell’importanza della dimensione collettiva della musica. Ebbene, affiancati dalla produzione del mecenate cult Dan Carey (di lui sentiremo molto parlare nei prossimi anni), gli Squid non deludono.

“G.S.K.” apre il disco, una traccia tanto eclettica quanto cosparsa di riferimenti alla letteratura distopica, a partire dalla Concrete Island menzionata, esplicito rimando al romanzo di Ballard. È uno scenario che dipinge una Metropolis moderna, fra l’accecante presenza di uno stabilimento farmaceutico e la fitta strumentazione di trombe e sassofoni a simboleggiare il roboante accelerare delle auto. Per tutta la durata del disco è mantenuto questo gioco ritmato di tensione e rilascio che lascia spazio tanto alla sperimentazione (“Boy Racers”), quanto alle melodie dance-punk più orecchiabili e vibranti del primo EP (“Paddling”), sempre pronte a dissolversi in un turbinio di forze. Il cantato del batterista Ollie Judge, un punto di incontro fra Mark E. Smith e Andy Partridge, sovrasta progressioni armoniche degne di “Amnesiac” (“2010”), uno dei lavori più politici dei Radiohead, e il minimalismo di Steve Reich (“Documentary Filmmaker”). I temi che ricorrono durante l’album – capitalismo, propaganda, alienazione – sono sempre inquadrati a partire da una prospettiva letteraria (una su tutte, Anna Kavan), evitando così di risultare didascalici. I personaggi, abitanti di questo luminoso prato verde, sono in costante frizione, confusi fra i tintinnii concitati dei dispositivi elettronici della città e conversazioni indecifrabili. L’ultima traccia, “Pamphlets”, segue nella prima sezione la stessa formula alacre di “Narrator”, per poi rabbuiarsi e sfociare in toni più malinconici e intensi, con un narratore forse più che ironico, offuscato dalla propaganda reazionaria e complottista (“I don’t go outside / I’ve got flagpoles firmly in my sights”), per poi concludere l’album brusco e netto come era iniziato, fra il caos e le urla.

Un debutto barricadiero, che sposa alla perfezione gli sperimentalismi con la sua anima più propriamente pop. La belle époque del post-punk revival sembra aver raggiunto il suo apice quest’anno e la proposta krautrock degli Squid non è da meno. New Weird Britannia, rule the waves!

82/100

(Viviana D’Alessandro)

Foto in evidenza di Holly Whitaker, presente sulla pagina ufficiale Facebook della band per fini promozionali.