SMILE, “The Name Of This Band Is Smile” (Subjangle/Dotto, 2021)

“This record is a no-filter picture of our first year as a band. A year made of songs, electricity, gigs, and the final delusion of the pandemic. It’s a record about the alienation of everyday life stuck between bad and underpaid jobs, the uncertainty of feelings, and the depression of the lack of alternatives given by capitalist realism.” Una cartolina di approccio al mondo degli Smile, che dopo averci rivelato le loro influenze fondamentali in occasione dell’uscita di “Every New Mistake”, lasciano la parola agli otto brani che costituiscono “The Name Of This Band Is Smile”: un disco fatto di grandi melodie, attitudine indie e cuore gettato oltre l’ostacolo.

Michele Sarda (Neverwhere, New Adventures in Lo-Fi) e Hamilton Santià (Somewhere Between) si sono ritrovati a suonare insieme dieci anni dopo l’esperienza degli Squirrel, mettendo la firma sulla compilation tributo a Daniel Johnston – “From Turin To Austin”, Febbraio 2020 – con “Life in Vain”. La line-up completata da Mariano Zaffarano al basso e Francesco Musso alla batteria si è esibita in locali come il Blah Blah e l’Astoria di Torino prima del lockdown per poi chiudersi in studio con Loris Spanu dei Lechuck per registrare l’album d’esordio. Che nell’immaginario guarda a Manchester: laddove le copertine dei singoli degli Smiths erano istantanee di personaggi in bicromia, oggi sulle sleeve dei quattro torinesi troviamo luoghi, nella rappresentazione di una città ugualmente incastrata tra passato industriale e presente incerto e depresso, ma che può rinascere nell’arte.

La partenza di “How The Race Is Done” – influenzata dal movimento #BlackLivesMatter – è su un giro di accordi subito ficcante, tiro alla Husker Du e chorus all’unisono di marca R.E.M., mentre “Broken Kid” ha un carattere più riflessivo in cui il jangle sound esplode in un finale quasi emo-core; una vibrante sezione ritmica guida “Just So You Know” contro il muro di egoismo erto da chi vive solo per il tornaconto personale (Self is sacred/Self is gold/Self-assured ‘til you can’t ignore all those little secrets/pounding hard at your door). “Towards Me” dimostra la bravura di Hamilton Santià nei cambi di registro della sua Fender e si candida a must dal vivo (chissà quando…); in “Every New Mistake” vale invece la regola da garage band, less is more: la prima canzone scritta dagli Smile è una dichiarazione d’intenti, “I want to leave trace of everything I make/In all the paths I crossed during my time“. “Time To Run” è un altro numero sbalorditivo, il pezzo che manca a “Vs” dei Mission of Burma. Le fa da contraltare “Try”, impregnata di una malinconia da highlands scozzesi.

“From Here On” chiude l’album e ne è il brano più rappresentativo, dove tutti i componenti tirano fuori il massimo. La linea di Zaffarano crea lo scenario, i ricami chitarristici di Santià tra Johnny Marr e Peter Buck seguono il passo energico della batteria di Musso e Michele Sarda è trascinante quando canta “It’s just something that you said you would/Realize all on your own/We will manage despite you all/We’ll take charge from here on“. Da Torino, una nuova rock band in cui credere.

77/100

(Matteo Maioli)