[Visions] High Fidelity in serie tra devozione e stereotipo

Torna Visions, la nostra rubrica dedicata alle novità del cinema e delle serie, con la disamina di un remake che ha diviso pubblico e critica.

Diffusa nel febbraio 2020 via Hulu, la serie TV High Fidelity è finalmente disponibile in Italia su Apple TV. Ispirata all’omonimo romanzo generazionale di Nick Hornby – che ha collaborato a questa nuova avventura – pubblicato nel 1995, la serie è una revisione a tratti molto originale sia del libro sia del film di Stephen Frears distribuito nel 2000. Ciò che non cambia è il soggetto, la musica: sempre al centro della storia, àncora di salvezza per tutti i personaggi. Benché la serie, imperfetta e spesso non del tutto convincente, non sia stata rinnovata per altre stagioni come ha opportunamente (e polemicamente) sottolineato su Instagram la protagonista (e produttrice esecutiva) Zoë Kravitz, l’apparato musicale che accompagna il suo svolgersi non può non incuriosire gli appassionati – specie quelli un poco maniacali – di musica. La storia, dopotutto, è la solita: il proprietario di un negozio di dischi, fedelmente devoto alla musica e ossessionato da liste di brani riguardanti i più differenti stati d’animo e tematiche, rompe con la sua metà e attraversa un periodo di crisi nerissima. Se film e libro erano ambientati rispettivamente a Londra e Chicago e il protagonista era un ragazzo naïf, qui la protagonista, Rob, è una ragazza di Brooklyn tutt’altro che sprovveduta (anzi, anche fin troppo cool), ed è forse questo un aspetto della serie che non convince del tutto perché in un certo qual modo mina le fondamenta del senso stesso dell’universo narrativo d’origine, che sembra implicare de facto un protagonista che è parte della common people, musicalmente coltissimo, interiormente profondo ma al tempo stesso sinceramente ingenuo.

L’aspetto meramente maniacale – quello delle liste – che caratterizza sia il libro sia il film non viene mai esagerato e integra in maniera opportuna il semplicissimo plot. Gli autori della serie, a tutti gli effetti una rom-com, dipingono i personaggi con precisione sincera senza ancorarli mai troppo ai loro alter ego di ieri; al tempo stesso non riescono a edificarvi intorno una dimensione nuova e a creare una sorta di universo autonomo per la serie. Ciò fa rimanere i soggetti sospesi in un limbo che a tratti richiama sapientemente il libro ma che non sempre giustifica – o semplicemente spiega – le distanze da esso. A muoversi meglio, talvolta, sono i personaggi che gravitano intorno a Rob e in particolare l’aspirante rapper Cherise (DaVine Joy Randolph), che convince sia nell’interpretazione sia nel tipo di ruolo che si cuce addosso.

La serie, come il film, inizia con la protagonista che comincia a esporre la sua “Top 5 All-Time Most Memorable Heartbreaks”. L’ex di Rob, Mac, è ritornato a Brooklyn con la sua nuova fiamma e questa notizia è destinata a creare problemi. Scivolare, tuttavia, da una rilettura ambiziosa e intrigante del libro, che la serie sembra promettere e che a tratti raggiunge, a un pericoloso concentrato di cliché è più facile di quanto si pensi. Nel corso dell’opera infatti si incontrano alcuni scivoloni: veri inciampi nel luogo comune, come la scena nella quale Cherise, mentre sta vendendo un suo disco, condanna Michael Jackson per i suoi presunti crimini e ottiene una replica stizzita di Rob che a sua volta accusa l’amica di ascoltare “quel tizio”, Kanye West, che indossa il cappello “MAGA”, la celebre frase coniata da Donald Trump. I ragazzi che rubano vinili per creare samples nel loro garage vengono inseguiti e messi alle strette da Rob, che però ne comprende le buone intenzioni e, cambiando idea in un istante, concede loro la possibilità di continuare in questa “operazione” purché poi restituiscano i dischi. Sono tutti elementi che non danneggiano esageratamente il lavoro ma che tradiscono una semplificazione fin troppo evidente in fase di scrittura.

Superati questi ostacoli e “accettati” i non pochi difetti, l’appassionato di musica cercherà di apprezzare le offerte sonore che la serie propone e tenterà, grazie a queste, di affibbiare alla serie una onesta sufficienza. È ben riuscito, ad esempio, il curioso dialogo che si instaura tra contemporaneità e vintage, non solo nella musica ma anche negli outfit che indossano i personaggi, in particolare Kravitz. I Fleetwood Mac camminano al fianco di Notorious BIG, del quale una splendida foto spicca nel negozio. Il disco di Jay Reatard e quello di Tyler, The Creator sono uno vicino all’altro. Nell’ufficio di Rob sono appesi il poster di Prince e quello di Alex Chilton. La soundtrack attraversa quasi tutti i generi, come già avveniva nel film del 2000 che era, però, maggiormente legato al rock e al pop. Nella serie le barriere si abbattono e la rivoluzione si compie: il protagonista ora è una protagonista e la black music non è più periferica. La figura di riferimento di Rob è David Bowie, celebrato come divinità e guida. Non manca poi l’hip-hop di qualità, sempre glorificato ma presente solo in piccola parte nella colonna sonora. Fanno eccezione il già citato Notorious e gli OutKast, che con “Prototype” concludono la playlist per cuori infranti che Rob prepara per l’ex. C’è uno spassoso cameo della cantante dei Blondie Debbie Harry, che balla nel salotto di Rob e le dà consigli sentimentali mentre risuona “Heart of Glass”. C’è una corsa notturna di Rob sotto le note della splendida “Nikes” di Frank Ocean e c’è l’incursione – troppo estemporanea, purtroppo – della sublime “Pink Moon” di Nick Drake. High Fidelity – lo sappiamo – è da sempre anche questo: in un certo senso la canzone giusta viene prima della storia stessa, e alla fine è per questo che la serie si salva.

Non tutto, però, si trascina in quel modo, e alcuni momenti convincenti non mancano: come quello che si disvela nell’episodio “Uptown”, quando Rob viene contattata da una donna ricchissima che sta per divorziare e ha deciso di vendicarsi del marito che l’ha abbandonata per una ragazza più giovane. La signora ha deciso di vendere, a insaputa di lui, la sterminata e preziosissima collezione di dischi del marito infedele per pochissimi dollari. Rob va da lei insieme a un ragazzo che al tempo sta frequentando. Non vorrebbe comprare, si sente in difficoltà, teme di fare un torto al marito. Questa lotta interiore – particolarmente infernale per chi, come noi, colleziona dischi e potrebbe finalmente appropriarsi di una rarissima prima edizione di The Man Who Sold the World di David Bowie – si risolverà in una sorta di rivelazione per la protagonista. È uno dei pochi momenti sinceri, non di puro revival, dell’opera; uno dei pochi momenti che non lascerà indifferente chi vive la musica in maniera devota.