“Ecco l’impossibile”: intervista a Emiliano Mazzoni

La strada provinciale 486R è un prolungamento serpentino della via Emilia che collega Modena e Sassuolo con i paesi a sud/ovest del crinale appenninico tosco-emiliano. Strada di curve perenni, percossa da neve e ghiaccio, e circondata da una trama rigogliosa di monti e di boschi dagli alberi pittoreschi. La attraverso nella giornata più spettrale di questo inverno che sembra infinito; la mia direzione è Piandelagotti, il paese dell’Appennino in cui vive e lavora il cantautore Emiliano Mazzoni. Ho scoperto la sua musica di recente, grazie alla recensione che il nostro capo-redattore Paolo Bardelli ha dedicato all’ultimo album pubblicato da Emiliano. Non dirò nulla di tecnico o di critico su questo disco, né sulla musica di Emiliano in generale, ho scoperto di non esserne in grado, posso soltanto dire che me ne sono innamorato, intendo che amo questo disco e la sua musica in senso letterale, e di quell’amore particolare che contribuisce a darci la sensazione di essere individui unici al mondo, per dirla con Barthes. È questo tipo di amore che non so ben comprendere ad avermi spinto fino a inerpicarmi lungo l’appennino per incontrare Emiliano Mazzoni in quella montagna da lui cantata con disillusione e sincerità, come può fare solo chi ha vissuto qui per molti anni e in accordo profondo con le persone e gli elementi che popolano questo tempo e questo spazio.

Nel punto in cui la 486R si restringe nella strada provinciale 52 che conduce da Montefiorino verso Piandelagotti, cala una fitta nebbia che avvolge i vari presepi viventi dei paesi di mezzo. Penso ai romanzi di Pavese, a “Il Soccombente” di Bernhard, ai paesaggi innevati di Avercamp. Cerco nella mia mente i limitati riferimenti culturali che possiedo per riconnettermi in qualche modo al paesaggio circostante. Sono nato e ho vissuto anch’ìo in montagna, ma in quella dolce e mediterranea delle terre di Calabria, in cui, da alcune cime montuose, è addirittura possibile scorgere il mare. Quando giungo nel ristorante caldo e accogliente in cui lavora Emiliano e incontro la gentilezza del suo volto che neanche la mascherina anti-Covid può scalfire, ho l’impressione che sarà una di quelle serate emozionanti che difficilmente si possono dimenticare.

Cominciamo dal tuo disco di recente pubblicazione per l’etichetta “Private Stanze” e che riporta come titolo il tuo stesso nome. Nello specifico, vorrei innanzitutto chiederti dell’immagine posta in copertina: mi fa pensare a un albero visto dal di sotto, con il tronco la cui forma rimanda a una figura umana accovacciata in posizione fetale. Che cosa desideri evocare con una simile immagine?

L’immagine di copertina è stata concepita e disegnata dall’illustratrice Stella Zanardi. L’idea è partita da lei ascoltando il disco, io non le ho dato alcuna indicazione. Mi è piaciuta molto fin dal primo sguardo, in particolare quel tratto infantile che emerge nitidamente e che ricorda i disegni dei bambini. In realtà l’immagine rimanda a una fotografia che mi scattò la stessa Stella un anno prima mentre avevo i postumi di una sbronza atomica e mi ritrovavo a terra accovacciato in quella posizione fetale. Trovo interessante che tu l’abbia interpretata come un albero visto da sotto: è una visione che è in linea con il concept del disco. Questo conferma tra l’altro che si tratta di un’immagine fortemente simbolica, ognuno ci vede qualcosa di differente ed è bello che sia così.

Ci racconti com’è nata l’idea di questo disco?

Il disco nasce da un nuovo approccio alla musica che ho sviluppato negli ultimi anni. Mi sono dato dei limiti. Sono contento di non scrivere tante canzoni come facevo prima. Era frustrante scrivere molte canzoni senza poi dare un senso a queste creazioni. Preferisco avere voglia di registrare le canzoni, di arrangiarle e di farle uscire con una veste. Sto anche pensando di non realizzare più dischi ma di pubblicare una canzone ogni tanto. Non è un’idea originale ma non è neanche sbagliata. Il problema è che il cantautorato sia in quanto mestiere che come hobby è complicato e per certi versi paradossale. Trovo paradossale per esempio che il cantautore per pubblicare un suo disco abbia bisogno di diversi professionisti come l’ufficio stampa, il produttore, la ditta che stampa i dischi, il distributore, il video-maker se si vuole (perché a volte pare sia obbligatorio realizzare un video per promuovere le canzoni!). Tutte queste professioni hanno senso di esistere perché ci sono persone un po’ vanitose come me che sono convinte di scrivere delle canzoni e di volerle fare ascoltare alla gente, ma in definitiva hanno bisogno di un altro lavoro per potersi permettere di fare dischi. È anche vero poi che dall’incontro con queste professioni si può crescere molto. Una fortuna clamorosa per me è collaborare con Luca A. Rossi. Lui abita qui vicino, a Civago. Quando avevo i provini del mio primo disco già ci conoscevamo. Aveva lo studio a Villa Minozzo, la “Ust Recording Station”, un gran bello spazio. Io gli proposi di produrmi, a lui andava bene, e così abbiamo iniziato a lavorare a casa mia. Abbiamo sempre utilizzato il mio computer, i miei microfoni, le mie attrezzature, lui portava gli amplificatori e le altre cose che mancavano (preamplificatori, microfoni particolari, chitarre e bassi). Alla fine del mio primo disco ho scoperto che si poteva lavorare in quel modo, e così ho realizzato il disco successivo. Questa possibilità di lavorare da solo a casa mi ha aperto un mondo. Prima avevo delle band così fragorose che era impossibile registrare a casa. Lavorare con Luca mi ha dato la possibilità di crearmi un metodo di lavoro. Io sono uno che si lascia produrre, è una ricchezza poter avere il parere e il supporto di professionisti come Luca. Anche nell’evoluzione sonora della mia musica si sente che la produzione ha compiuto un percorso. L’ultimo disco l’ho realizzato così, lavorando da casa, un pezzettino per volta, ma senza fretta. In particolare, ricordo che la realizzazione di “Profondo Blu” era stata molto impegnativa in quanto avevamo utilizzato un metodo di registrazione ibrido, in parte live e in parte con sovraincisione, utilizzando nastri analogici, con tutte le problematiche che una scelta del genere comporta. L’anno dopo eravamo nei camerini di un locale di Reggio Emilia, e ci venne in mente di suonare un pezzo un po’ danzereccio, “da classifica”, ovviamente prendendoci molto poco sul serio. E’ venuto fuori “Cocktail 7”. Dopo quest’altro album volevo fare qualcosa di diverso. Avevo già in mente molte cose ed anche il suono che doveva avere il nuovo disco. Non avevo fretta. Lavorando in questo modo mi sono ritrovato con 8-9 canzoni, e da lì abbiamo iniziato con Luca e gli altri musicisti (Mirko Zanni e Samuele Lambertini) a selezionare cosa mettere da parte e cosa invece inserire. “Quei mercantili”, per esempio, la canzone iniziale, è stata inclusa nel disco solo all’ultimo momento. L’indecisione era data dal fatto che avevo realizzato una versione solo piano e voce che non mi convinceva, era in contrasto con le sonorità del disco. Un giorno in sala prove abbiamo iniziato a improvvisare ed è venuta fuori la versione che ora è sul disco, esattamente con quelle due armonie, quella tensione, quell’atmosfera. È stato anche molto difficile ricostruirla dopo quell’improvvisazione. Così è nato quello che è senza dubbio il mio pezzo preferito dell’album. Attendo con curiosità il momento in cui sarà di nuovo possibile suonare dal vivo per condividere anche la versione originaria solo piano e voce.

Le atmosfere dell’album sono chiaramente legate a quelle della montagna in cui vivi, e in particolare alla tua Piandelagotti. Quello che mi colpisce è la tua capacità di raccontare questa realtà in un modo che è al contempo crudo e gentile, reale e sognante; il ché ti permette anche di scansare la retorica vuota del “ritorno alla natura”, molto in voga all’interno di un certo tipo di cantautorato e di letteratura. Come sei riuscito a raggiungere un tale equilibrio fra realtà e immaginazione?

Ottima domanda. Credo che ci sia un’ipocrisia insopportabile nella mitizzazione della dimensione-paese. È troppo facile scrivere un disco da Milano in cui si canta la bellezza del vivere in paese. Il mio disco è stato scritto direttamente dai luoghi che vengono cantati. In questo senso c’è una profonda onestà. E poi c’è la dimensione del ricordo che è anche importante. Mentre scrivevo le canzoni mi venivano in mente le cose che facevo e che accadevano durante l’infanzia. È quello che mi fa stare bene in questo momento. Mi trovo molto a mio agio per esempio in una canzone come “Ecco l’impossibile”. È come se riportare certe emozioni e certi paesaggi all’interno di una dimensione legata ai ricordi mi abbia permesso in qualche modo di fare pace con il posto in cui vivo. È infatti certamente vero che nella mia musica si sente la natura e la montagna. Questo mi piace ma non ne vado fiero perché non è uno dei miei scopi principali: ci sono molti problemi legati al vivere in montagna. L’isolamento ad esempio ed il vivere lontani dai luoghi in cui le cose accadono, può portare a non accorgersi di molte cose, ad essere sbagliati, a capire in ritardo che stai facendo degli errori, o a non capirlo proprio, l’isolamento è un rischio. Non è sempre così ma bisogna stare attenti. Tutto questo è riferito al fare musica, una faccenda che ha senza dubbio bisogno del confronto diretto con la scena del momento, soprattutto nella fase della gioventù in cui la formazione è importantissima. Da adulti trovarsi fuori dal mondo può anche essere un valore. Non ci sono regole, ma alcuni rischi sì. Questo è un aspetto del vivere in montagna. Ci sono poi ovviamente delle persone che hanno una certa sensibilità, che vivono bene con sé stessi e possono fare a meno degli altri e della cultura di contatto e condivisione perché hanno talenti bellissimi, ma non sono una regola, nemmeno loro, non possiamo essere tutti asceti. Quindi in conclusione sono contento che il disco “suoni” realista e sognante allo stesso tempo come hai scritto.

Quali sono le principali ispirazioni dell’album e quale invece l’elemento di rottura rispetto al passato? Sia dal punto di vista concettuale che musicale, intendo.

Concettualmente direi che possiamo tornare all’immagine di copertina. Questo è un disco che si svolge rannicchiati in un posto appartato, tranquillo. Ci sono molti colori, mentre gli altri dischi erano più cupi. C’è la speranza, la natura come palcoscenico. C’è scritto in qualche comunicato stampa che ho scritto un disco in cerca di pace, ed è proprio così. Dal punto di vista musicale credo che nessuno possa dire di essersi ispirato a qualcuno o qualcosa. Ognuno cerca di fare quello che gli riesce di fare. A livello di ascolti vedo che spesso sono ad abbeverarmi alla fonte. Amo Nick Cave, Leonard Cohen, Bob Dylan e gli altri giganti. Ed amo i giganti nostrani anche. Non è per snobismo, ma molto del contemporaneo mi scivola via. Apprezzo Big Thief, Timber Timbre, mentre a livello italiano rimasi folgorato da Samuel Katarro (ora King of the opera) e trovo speciale Iosonouncane, mi piace molto Bianconi e me ne piacciono tanti altri e vi consiglio anche i miei colleghi dell’etichetta “Private Stanze”. Sono comunque uno che si è formato negli anni ’90 con le meraviglie nostrane e non. Tornando nello specifico al mio ultimo album, ci sono stati una serie di ascolti che mi hanno quantomeno aperto degli scenari. Mi riferisco ad esempio all’ultimo disco di Timber Timbre, per dirne uno. Ma c’è anche tutto il giro di pseudo-indie della scena italiana che si rifà un po’ agli anni ‘80: non posso dire in tutta onestà che non mi abbia influenzato in qualche modo. Pur non essendo un seguace di quella scena mi sono ritrovato ad utilizzare una batteria elettronica e ho scoperto che mi piaceva. Quando ho fatto il provino, Luca mi ha detto chiaramente che avevo già creato un mondo, che c’era già una chiave di produzione in quello che io avevo realizzato digitalmente. Anche in questo caso non posso dire che si trattasse di una precisa scelta estetica. È semplicemente quello che potevo fare. Io vivo quassù in montagna, per la prima stesura dell’album la batteria potevo includerla solo digitale, non avevo alternative, e così lo stesso per basso, chitarre e tutto il resto. In un secondo momento abbiamo poi sostituito la realizzazione digitale con l’esecuzione acustica o elettrica laddove ci piaceva; in altri casi abbiamo lasciato la sonorizzazione digitale, senza alcun pregiudizio.

Ci racconti la tua giornata tipo? Quanto tempo riesci a dedicare alla musica? Di cos’altro ti occupi? 

In montagna le giornate tipo variano molto in base alle stagioni. D’estate mi alzo presto e inizio a fare qualcosa inerente alla mia attività lavorativa al ristorante. Ancora prima al mattino, o a volte a ora di pranzo, faccio dell’attività fisica, corsa o bicicletta, per allontanare la pazzia, io penso. Le mie giornate sono condizionate ovviamente dalle aperture del ristorante: quando siamo aperti mi dedico principalmente al lavoro; quando il ristorante è chiuso le giornate prendono tutt’altra piega. Quando c’è neve d’inverno mi dedico allo sci. La verità è che non ho proprio la possibilità di avere una routine, ma in fin dei conti non la vorrei neanche. Tutti i giorni mi sveglio con l’idea di suonare il piano fino a sera e scrivere le canzoni più belle della storia della musica. Dopo un attimo mi rendo conto che così non è, devo andare in posta e poi dal commercialista, ho la legna da raccogliere. E poi pensandoci bene mi rendo conto che queste cose da fare sono ben più utili che stare lì a scrivere canzoni che probabilmente nessuno o quasi ascolterà mai. Il primo pomeriggio è comunque un momento in cui mi dedico alla musica se riesco a trovare la concentrazione. Non più di un’oretta comunque. Se ne esce fuori qualcosa di interessante me l’appunto e la rimando a sera. E poi spesso capita che di sera non faccia nulla. Nei tempi pre-Covid andavo almeno una volta a settimana al cinema o a vedere concerti. Faccio notare agli amanti della montagna che vivono in città che questo per me comporta fare circa 30.000 km all’anno su e giù per l’Appennino, molto spesso fra nebbia e pioggia. E con il passare degli anni mi rendo conto che la notte, dopo il cinema e i concerti, la casa a cui fare ritorno sembra sempre più lontana. È una vita dura da queste parti se vuoi fare anche altre cose oltre ai bianchini al bar e alle attività montanare.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Andrai in tour appena possibile? O continuerai a creare e a registrare?

Ormai gli spazi disponibili ad accogliere musica dal vivo sono così pochi che non credo si possa parlare più di tour, almeno nel mio caso. E tuttavia suonare dal vivo mi manca, non vedo l’ora di poter suonare le canzoni del disco nella versione solo piano e voce, credo che meritino di essere ascoltate. Per quanto riguarda i progetti futuri, a questo punto del mio percorso ho il desiderio di realizzare il mio prossimo disco interamente in digitale, per poi risuonarlo dal vivo in studio con una super band. Probabilmente cambierò idea, un po’ perché le idee cambiano ed un po’ perché non è poi mica cosi semplice…

Photo credits: Stella Zanardi

(Emmanuel Di Tommaso)