[aapoc] Il momento decisivo: Cartier-Bresson vs. Paperino

Oltre ad essere universalmente riconosciuto tra i più grandi fotografi del 900, Henri Cartier-Bresson (Chanteloup-en-Brie, 22 agosto 1908 – L’Isle-sur-la-Sorgue, 3 agosto 2004) ha avuto un ruolo fondamentale nella teorizzazione dell’atto del fotografare, tradotto tra l’altro nella celebre definizione del “momento decisivo” che è anche il titolo del suo libro più famoso (1952).

Questa dell’istante perfetto, dove le cose e i soggetti circostanti si andavano assestando in un equilibrio totale, dove ogni punto di fuga dell’osservazione si trovava esattamente al livello ideale per la composizione, senza che la composizione fosse stata ideata e costruita, era la sua unica ossessione, la sua reale ricerca. Ogni sua immagine lascia attoniti proprio per questa sensazione di assoluto che evoca.

Dal suo canto, l’artista (nel 1962, quando era già celeberrimo) dichiarò:

 «In realtà la fotografia di per sé non mi interessa proprio; l’unica cosa che voglio è fissare una frazione di secondo di realtà».

Lui amava la pittura, e alla pittura voleva ritornare, non ha mai spesso di ritenersi un pittore, un disegnatore. Intendeva la fotografia come una forma d’arte, ma soprattutto come un’estensione della pittura. Forse nel tentativo inutile di definirne la grandezza, può entrare solo una parvenza di valutazione, a metà tra l’artistico e lo scientifico e, in buona parte, anche di mistico : lui non aveva bisogno di guardare,  lui «vedeva».

Durante la seconda guerra mondiale era entrato a far parte della resistenza francese. Catturato dai nazisti,  riuscì a scappare ed arrivare in tempo per documentare la liberazione di Parigi nel 1944.

Accompagnata quasi costantemente dal mito, la vita di Henri Cartier-Bresson (che è anche tra i fondatori insieme a Robert Capa della celebre agenzia Magnum, 1947 ), è stata lunga e sempre produttiva. Se ne va nel 2004, a 95 anni.

Ancora oggi mi capita di pensare spesso, e di  riguardare spesso nei molti cataloghi che ho collezionato visitando le sue mostre un po’ dappertutto, la serie Vedute dalle Torri di Notre-Dame, dove si nasconde un’idea di Parigi che sempre sveglia e riattiva un mio personale mondo emotivo.

Molti anni fa, con una fidanzata  che avevo allora ed un gruppo di amici (mai più visti in seguito) di quest’ultima, visitai per la prima volta Parigi. Stranamente, pur avendo già viaggiato più volte in Francia e soprattutto in Bretagna, non mi era ancora capitata l’occasione  di vedere Parigi e passarci qualche giorno. Il nostro albergo era a Les Halles e si chiamava D’Angleterre, ma non c’entrava niente con quello dove passò i suoi ultimi giorni Oscar Wilde; era un postaccio squallido e cadente, un edificio polveroso e gigantesco anche se, incastrato tra due palazzi e, risultante (credo) dell’unione tra due o tre altri stabili molto dissimili fra di loro, dalla facciata principale sembrava una palazzina di modeste dimensioni . All’interno ogni piano cambiava volumi e arredamento ad ogni incrocio di corridoi. Ogni piano era, in realtà, un vero labirinto, costellato di segni e richiami sensibili (sporco sui muri, scie sul pavimento di legno, una porta sfondata, una nicchia sul muro) che – come effettivamente  pensai di fare – se organizzati in una mappa (i numeri delle stanze erano appena accennati, in angoli misteriosi, sulle porte), avrebbe potuto facilitare molto il ritrovamento delle camere. Però era molto romantico  e mi faceva pensare al romanzo parigino di Jack Kerouac, Satori a Parigi.

In quei giorni leggevo Viaggio a Lhasa di Giuseppe Tucci, diario di una spedizione italiana in Tibet negli anni ’20. Poi compravo un sacco di giornali e riviste, e la sera, quando finalmente, molto tardi, andavamo a letto, guardavo con orgoglio poetico la stanza sfattissima, con le brocche di porcellana, con il parquè fuori guida, con le nostre valige buttate per terra (non c’erano altri supporti), con tutto il variopinto caos di vestiti che due ragazzi riescono a creare in giro anche in un paio di giorni, con le scie lasciate dai fiammiferi accesi sul muro sopra il letto da chissà quante generazioni di visitatori, ne respiravo l’assenza globale di comodità e di pulizia e sprofondavo nella mia stessa letteratura, compiacendomi, sentendomi – una volta tanto – in armonia con me stesso,  al posto giusto.

Ma dopo qualche giorno i miei compagni risultarono tutti afflitti da improvvisi malesseri, febbre, raffreddori, mal di gola…

Una sera, quando tornammo in albergo dopo la cena in un postaccio tunisino, realizzai che erano proprio tutti, compresa la mia ragazza, fuori uso per il giorno dopo.

Esprimevo preoccupazione e sincero dispiacere ma dentro di me ero molto felice perchè l’idea di girarmi Parigi da solo, in pace, con i miei tempi e il mio modo lentissimo di camminare mi risultava irresistibile.

La mattina dopo feci colazione di buon ora e mi incamminai verso Notre Dame.

Visitai la chiesa e ne ammirai l’immensità, la potenza architettonica… le tonalità conferite alla luce interna dalle vetrate… comprai una guidino… insomma niente di diverso, concettualmente e fisicamente da quanto facevano le valanghe di comitive di turisti che sciamavano da tutte le parti.

Dopo un po’ questo mi sembrò molto deludente e uscii di nuovo. Presi a bighellonare sul lungo Senna in declivio che si apre davanti alla cattedrale, sul Quai de Montebello e sul Quai de la Tournelle, dove da secoli i bouquinistes vendono libri – e talvolta sembra che la loro merce non sia cambiata molto nel tempo.

In maggior parte sono libri francesi di seconda o terza mano, ma alcuni venditori sono specializzati in settori quali il cinema o le vecchie riviste. Altri vendono stampe e cartoline… Notai che qualcuno aveva anche dei fumetti.

Da una distesa di questi «giornaletti», come li ho sempre chiamati, mi attrasse immediatamente una bella edizione cartonata… quando dico mi attrasse intendo quella speciale forma di richiamo che solo l’oggetto libro può esercitare quando stabilisce che è arrivato il tempo giusto e la persona giusta per lui… mi avvicinai, lo sfilai dalla pila e lo rigirai per guardarne la copertina.

Che fosse un qualcosa riguardante Paperino mi era subito sembrato evidente ma non potevo certo pensare di trovarmi tra le mani l’edizione originale (1964), in inglese, di Uncle Scrooge The Phantom of Notre Duck, uscita in Italia il 5 marzo 65 (mio tredicesimo compleanno) col titolo di  Zio Paperone e i misteri della cattedrale.

Guardavo la copertina del libro, lo sfogliavo come per cercare qualcosa nascosto tra le pagine, e ogni tanto gettavo uno sguardo alla facciata di Notre Dame, che mi troneggiava alle spalle…

Paperino…Paperone…

Bruce Chatwin dedicò un intero breve saggio alla suggestione che gli veniva evocata fin da bambino dalla parola “Timbuctù,  ovverosia da una specie di simbolo letterario (e fonetico) della più assoluta lontananza geografica e mentale, dell’Altrove.

Io posso dire lo stesso. Timbuktu… Zanzibar… l’Alaska… l’altrove mitico, la voglia di scoprire luoghi dove possono ancora celarsi i  misteri, è apparsa nella mia vita come profonda fascinazione, come impulso al movimento, alla disaffezione per la realtà prevedibile e troppo sicura, tramite i fumetti, per mezzo di nomi  ancor più evocatori quanto abilmente (ma dichiaratamente) truccati, lievemente difformi dall’originale, quanto bastava per prendere le distanze dai generi più seri dell’intrattenimento, garantendosi così l’appartenenza all’universo infantile.

Credo proprio che tutta la mia cultura di base, sia dal versante nozionistico che da quello che riguarda l’attitudine a creare, improvvisare su un tema, lasciar affiorare una suggestione dalle fantasticherie, insomma il bagaglio complessivo di risorse mentali con il quale sono entrato nella vita e grazie al quale faccio spesso la figura dell’uomo colto, mi viene dalla precoce, accanita, costante e capillare lettura (dovrei dire studio, l’unico mai svolto volentieri…) dei fumetti di Paperino, cioè Donald Duck

Donald Fauntleroy Duck nasce nel 1934 (e non morirà mai)  ideato da Walt Disney e realizzato graficamente dal disegnatore Al Taliaferro.

Veste perennemente con un abito blu alla marinara, con i bottoni dorati, e un cappellino che gli caratterizza il viso. Inizialmente fece da spalla a Topolino, ma ben presto Walt Disney si rese conto che il personaggio  meritava una testata tutta sua, con delle storie che dovevano vederlo come protagonista assoluto.

E’ un pasticcione, confusionario, dispettoso, irascibile, testardo, pigro, fifone,  và sempre incontro ad un mare di guai, complicandosi la vita per una sciocchezza, soprattutto perchè è perseguitato da una tremenda sfortuna. Paperino vive in una casetta con giardino nella città di  Duckburg (Paperopoli) e si arrangia a fare mille mestieri dal pompiere al gelataio, dall’ incantatore di serpenti al pescivendolo ecc… Viaggia con una macchinetta rossa e blu in stile Cabriolet targata 313.Così come per Topolino, anche per Paperino esiste l’eterna fidanzata e questa è Paperina (Daisy Duck).

Carl Barks nasce invece nel 1901 in una fattoria nei pressi di Merrill, Oregon, una minuscola cittadina al confine con la California.

Carl, afflitto da una forma di sordità parziale, sviluppa la tendenza ad isolarsi e ad evitare il più possibile il contatto con gli altri e,  chiuso per ore nella sua stanzetta,  da corpo al suo mondo fantastico disegnando e facendo scarabocchi ovunque. Crescendo farà molti mestieri ma senza mai abbandonare la sua autentica passione, la sua via di fuga dalla realtà: il disegno

Nel 1935, viene assunto da Disney, che aveva creato da un anno il personaggio di Donald Duck, Lavorando intensamente Barks di lì a pochi anni modifica l’aspetto di Paperino e gli confeziona una personalità molto caratterizzata, buffonesca e irascibile insieme, ma anche uno spirito avventuroso  che lo porta  a viaggiare e a esplorare il mondo, affrontando mille avventure.

Ma nel 1947 Barks ha un’altra intuizione vincente: ispirato dal vecchio avaro Ebenezer Scrooge di Dickens, inventa lo zio di Paperino, che si chiama – per l’appunto – Scrooge, in Italia Paperon de Paperoni, il papero, oppure l’uomo, più ricco del mondo.

I propri averi li tiene nel suo deposito che sovrasta la città di Paperopoli come un simbolo e un ammonimento. Avaro fino all’esasperazione, nevrotico e ansioso, Paperone nel tempo travalica il proprio stesso personaggio, la propria stessa origine, che non viene più collocata ma infinitamente accennata, riposizionata in epoche favolose della conquista del West e di altri luoghi memorabili da dove sempre si parte e raramente si lasciano ricordi raccontabili. Inutile dirgli che il denaro non dà la felicità, infatti il dollaro e i fantastiliardi sono molto di più:  il suo destino.

Barks, (che come Cartier-Bresson morirà  ben oltre i 90 anni, nel 2000), come sollecitato dalla curiosa coppia che adesso può gestire, e già da tempo incurante  della realtà o della verosimiglianza storica, andrà  collocando sempre più spesso le avventure di Paperone e Paperino  in diverse epoche della storia e della mitologia, ma – influenzato dalla successiva passione per la narrativa noir e misteriosa, nel tentativo di arricchire sempre la gamma delle sue possibilità narrative –  pescherà a piene mani per i suoi soggetti anche  dal romanzo e dal feuilleton popolare.

La storia di  “Zio Paperone e i misteri della cattedrale” è ispirata infatti in modo evidentissimo sia al celebre romanzo di Victor Hugo, “Notre Dame de Paris “(1831), di cui la cattedrale di Paperopoli è quasi una copia, sia all’altrettanto celebre “Il fantasma dell’opera” (1910), romanzo di Gaston Leroux.

Alla ricerca di un piffero sparito, in un’atmosfera rarefatta come difficilmente un fumetto riesce a creare, attraverso le inquietanti penombre e i mille segreti e trabocchetti della cattedrale,  Zio Paperone, Paperino e i nipoti Qui, Quo e Qua, trovano, dopo molte difficoltà e grazie al manuale delle Giovani marmotte, il misterioso inquilino di Notre Duck (Notre Paper nella versione italiana) .

Il fantasma ammantato di nero, che volteggia tra scale e colonne cantando My Bonnie lies Over the Ocea” (una traditional song a suo tempo interpretata anche dai Beatles)  tiene lungamente in scacc  la famiglia dei paperi, depredando  Paperone di una intera cariolata di monete, che  utilizza nella finalizzazione del suo hobby: costruire in scala ridotta un modello della cattedrale solo, appunto, con delle monetine.

Geniale è il colpo di scena finale quando il ladro mostra il suo vero volto, praticamente identico a quello dello Zio Paperone.

Ecco, se Cartier-Bresson fosse stato presente avrebbe chiaramente riconosciuto l’essenza del Momento Decisivo e non avrebbe resistito alla tentazione di fotografare i due paperi, identici, l’uno specularmente all’altro, riconoscendo allo stesso tempo a Carl Barks la sua stessa qualità di Sguardo.

E così, con il mio prezioso giornaletto tra le mani, mi girai e, dopo pochi minuti, con grande decisione entrai nuovamente in Notre Dame. Naturalmente non c’era più nessuno, nessun turista, nessun prete, nessuna anziana signora coperta di nero, nessun francese, pio o solo abituato a frequentare le chiese… no: nessuno.

Venni colto da un brivido di autentica esaltazione, come forse non avevo mai registrato in vita mia, e come forse non ho mai più sperimentato in seguito…

Avevo l’immensa cattedrale tutta per me,  avevo tutto il tempo del mondo, tutte le potenzialità e le possibilità spalancate davanti a me…..e quel che è più, e che non è facile descrivere, spiegare, vivevo solamente e chiaramente nei colori, nelle tinte magistrali che le vetrate gettavano intorno trasformando la luce esterna e le complicazioni del mondo in prospettive del pensiero…..

Poi mi fermai ancora – maledetta abitudine ! – a riflettere: «Possibile che sperimento tutto ciò, che riesco a vedere e sentire Notre Dame così presente fisicamente e così altrove, ma non qui, non in un altro posto, la riesco a sentire come forza, come disegno ed esperienza della realtà scollegandola dalla realtà, rendendola solo un momento nella vita non mia, ma dell’universo? Possibile che possa essere così contento di avere qualcosa che non riuscirò mai a spiegare ma che resterà per sempre mia e mi tornerà in mente quando avrò bisogno, ogni volta che avrò bisogno, di capire tutto l’insieme senza capirne nessun particolare, senza averne la pretesa, di provare ad esplorare l’altrove senza dover andare chissàdove, senza partire, scappare? e… possibile che debba questa illuminazione… questo satori… ad un fumetto, e, in definitiva, ad un gruppo di paperi… ?».

Mi sedetti all’estremità di una delle lunghe panche. Due o tre file avanti a me sedeva qualcun altro. Mi sembrava di sentirlo respirare.

Quando ero molto piccolo mio padre, tornando a casa, mi diceva spesso: «Ehi… Paperino… che fai?»

Mi alzai e mi diressi in fretta all’uscita. Avevo delle monetine in tasca e mi sembrò ancor più che saggio, utile, lasciarle tutte nel recipiente per le offerte votive ad un Santo, dall’aria simpatica ma poco adatta, a mio avviso, ad un fumetto.

(Marco Bucchieri)

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