JOJI, “Nectar” (88rising, 2020)

Cosa c’è nella testa di George Miller?
La domanda sorge spontanea: come pure la consapevolezza che lui non voglia darci veramente una risposta. In un certo senso tutta la sua carriera artistica, a partire da quando faceva break-dance addosso ai passanti con una tuta rosa – perché anche quella, in qualche strano modo, era arte – è un punto di domanda che gli ha consentito di cambiare nome, identità, stile più e più volte, muovendosi con disinvoltura sullo schermo e nella musica. Sicuramente è un vero millennial: lo è nella capacità di cambiare continuamente senza il timore di sembrare contraddittorio o incoerente; nella maturità con cui interpreta anche le tendenze più catchy del pop contemporaneo e nel suo educato pessimismo – “SLOW DANCING IN THE DARK”, hit dell’album di debutto “BALLADS 1”(2018) strappava il cuore dal petto proprio per il dolore rassegnato e composto con cui cantava l’amore impossibile -. Joji non è cresciuto insieme a Greta Thunberg o al Black Lives Matter e le delusioni che la sua generazione si porta dentro sono palpabili nella sua musica. L’eterna precarietà di chi come lui è approdato al 2020 a trent’anni o quasi, barcamenandosi fin dall’adolescenza tra due universi così lontani come quelli del pre e del post Internet, è il suo punto di forza: nella sua musica giovane e “vecchia” allo stesso tempo Joji sa essere ironico e buffo e poi romantico e maledettamente depresso, introdurre ritmi da cantautore navigato per poi rassicurarci poco dopo sul fatto che, se potesse, ogni tanto vorrebbe tornare a fare l’Harlem Shake.
Ma questa è anche la sua debolezza. “NECTAR” è un disco instabile: “Sanctuary” e “Gimme love” sono il prototipo del pop ibrido e perfetto del 2020, dove Joji non ha nulla da invidiare alle hit di Billie Eilish o di Post Malone; altre tracce sono semplicemente uniche e ribelli nella loro freschezza, come “MODUS”, punta di diamante dell’album, la trap recuperata di “Tick Tock” o, ancora, la ruvida e pop rock-ish “Run”; l’intermezzo di “Upgrade” apre, in un minuto e trenta, scenari sorprendenti nel suo stile e fa sorridere come una sua vecchia gag riuscita.
Ma su un totale di 18 tracce questi colpi di genio non bastano: perché tutte le altre, pur non essendo veri e propri incidenti di percorso, costituiscono quantomeno deviazioni che rallentano di molto il flow complessivo. L’inizio di “NECTAR” potrebbe far sembrare l’album decisamente più esplosivo di quanto poi non dimostri in seguito mentre si spegne, lentamente, a partire dalla seconda metà. In particolare si piangono le occasioni sprecate di alcune featuring di tutto rispetto, una con Omar Apollo, tuttofare tra gli artisti di punta del pop/r’n’b lo-fi, e un’altra con nientemeno che sua maestà Yves Tumor, fresco di un album tra i più importanti e sovversivi del 2020: “High Hopes” e “Reanimator” sono tracce prive di forma, poco più che tessuti sonori orecchiabili. “Like You Do” e “Your Man” risollevano almeno il finale grazie al piglio da Elvis Presley easy-going che a Joji, come abbiamo già visto in altre ballad romantiche, si addice, ma rimane un interrogativo su cosa sia successo dopo “Sanctuary”: perché l’intenzione apparentemente incrollabile con cui “NECTAR” comincia crolla invece bruscamente, trascinando l’intero album molto al di sotto della qualità che Joji sarebbe stato in grado di sostenere dall’inizio alla fine? Non sembra nemmeno di stare ascoltando lo stesso artista: la voce, certo, rimane tra le migliori della musica pop contemporanea grazie al timbro pieno e vellutato e al controllo chirurgico di cui Joji dispone, ma le basi iniziano ad assomigliarsi tutte in una sorta di zuppa lo-fi per studio e relax e il team di ambiziosi produttori che ha curato l’album sembra diventare, dietro le quinte, il trio di sceneggiatori di Boris; a quel punto Joji “smarmella tutto” e quello che avrebbe potuto essere uno degli album migliori del 2020 rimane un passo indietro rispetto a tanti altri.
Joji è un’anima tormentata, sembra insofferente alla vita da star – vedere per credere: basti fare caso all’espressione disgustata e abulica con cui ultimamente posa per le pubblicità – ma se “MODUS” racconta magistralmente il senso di claustrofobia dovuto ai ritmi e alle scelte di una carriera in ascesa, in “Mr. Hollywood” l’artista pare francamente orgoglioso di potersi scegliere un simile soprannome. “Non è cane, non è lupo: sa soltanto quello che non è” diceva sconsolata l’oca Olaf parlando di Balto: e anche Joji, forse, è nella stessa fase. La speranza è che in futuro possa trovare un team – e forse anche una nuova etichetta – che siano di aiuto e non di ostacolo alla sua creatività. Il prossimo potrebbe essere un grande album.

73/100

(Claudia Calabresi)