NEIL YOUNG, “Homegrown” (Reprise,2020)

Avrei dovuto pubblicarlo un paio di anni dopo Harvest, era il lato triste di una storia d’amore, il danno fatto, il cuore spezzato, semplicemente non potevo ascoltarle, ma avrei dovuto condividerle, sono belle. Qualche volta la vita fa male, sapete quello che voglio dire“.

Così Neil Young annunciava nell’estate del 2019 la decisione di pubblicare “Homegrown”, un lost album realizzato tra giugno 1974 e gennaio 1975, durante il leggendario tour mondiale che vedeva Young suonare sul palco insieme a Crosby, Stills e Nash. Stiamo parlando dunque degli anni che rappresentano l’apice del percorso artistico di Young, dopo i clamorosi successi di “Harvest” e di “On the Beach”. Il successo artistico di quegli anni coincide però con un periodo complicato a livello di vita personale, soprattutto a causa della separazione con l’allora moglie e padre di suo figlio Zeke, l’attrice Carrie Snodgress: Young subisce un tradimento doloroso quanto inaspettato, che ispira gran parte delle canzoni che andranno a comporre “Homegrown”. È talmente intenso il dolore che il cantautore di Toronto non riesce a pubblicare l’album, dando invece vita a “Tonight’s the Night” che, come vedremo, è molto affine a “Homegrown”, sia per il dolore impresso che per la dimensione musicale.

“Homegrown” è un album per cuori spezzati, un mosaico struggente di canzoni sprofondate in un lirismo tragico e sospese fra il country-folk metafisico di “Harvest” e il blues funereo di “Tonight’s the Night”. Lontano anni luce dalla ricchezza musicale e concettuale di “On the Beach”, a Neil Young bastano pochi ed essenziali arpeggi di piano, chitarra e armonica e l’immancabile falsetto nasale e squillante per toccare le corde più profonde dell’anima.

A differenza dei primi grandi capolavori del cantautore canadese, in questo lost album le singole canzoni non spiccano per perfezione elegiaca; ciò che rimane impresso è soprattutto l’atmosfera crepuscolare permeata da sensazioni ricorrenti di vuoto e di buio: “I won’t apologize / The light shone from in your eyes / It isn’t gone / It will soon come back again / Though we go our separate ways”, canta Young nella traccia iniziale, a cui fanno da contraltare gli echi di speranza della successiva “Try”, (“Darlin’, the door is open / To my heart and I’ve been hoppin’ / That you won’t be the one / To struggle with the key / We got lots of time / To get together if we try”) che mettono in luce la conflittualità delle emozioni in gioco, una tempesta di contraddizioni interiori che sfociano nella scontrosa grazia di “Vacancy”, ballata blues sporcata dai riff graffianti di chitarre e dai turbolenti colpi della batteria.

A supportare Neil Young c’è un collettivo straordinario di musicisti che vale la pena menzionare uno per uno: Ben Keith alla chitarra, Tim Drummord al basso, Levon Helm e Karl T. Himmel alla batteria, Stan Szelest al piano e Emmylou Harris e Sandy Mazzeo ai controcanti.

Non mancano momenti più soleggiati come la title-track e in particolare “White line” che, inframezzati dagli oltre tre minuti sperimentali di surreale spoken word  di “Florida”, ci ricordano che l’album è stato concepito on the road, nell’habitat naturale di Young, lungo quelle strade amiche e selvagge (“That old white line is a friend of mine”) che lasciano sempre intravedere, nonostante tutto il dolore, un orizzonte di gioia.

Neil Young è stato capace nel corso degli anni di creare e nutrire un universo immaginifico senza tempo che ha finito per illuminare la cruda realtà della società americana e non solo. “Homegrown” è un frammento essenziale di questo universo. Meglio tardi che mai.

80/100

(Emmanuel Di Tommaso)