MOSES SUMNEY, “græ: Part 1” (Jagjaguwar, 2020)

In “Aromanticism” (2017), suo primo LP, abbiamo visto Moses Sumney tentare il salto a un respiro maggiore rispetto alla sua produzione precedente senza tuttavia riuscire a realizzare un’opera che fosse davvero all’altezza del suo potenziale artistico. Nei precedenti EP – “Mid-City Island” e “Lamentations”, rispettivamente del 2014 e del 2016 – si erano mostrati con più evidenza lo stile e le intenzioni dell’artista di Los Angeles (classe 1991), che dalla sua ha sempre avuto la libertà e versatilità compositiva di chiunque si sia avvicinato alla musica da autodidatta: una mente aperta, insomma, a svariate combinazioni di generi e di mezzi che fin dall’inizio della sua carriera lo aveva portato inevitabilmente a sperimentare. Se, tuttavia, in “Aromanticism” questa energia creativa appariva ingabbiata in una confezione che ha svilito Moses Sumney restringendo i nuclei tematici e le soluzioni compositive e sminuendo persino le numerose sfumature e possibilità della sua voce, questo nuovo album rappresenta un tentativo finalmente compiuto di affermare il proprio spazio nel panorama musicale contemporaneo.

“græ: Part 1” è il viaggio di Moses Sumney alla scoperta delle proprie molteplici identità e forme; la voce parlante dell’intro, prima di risuonare come inghiottita da un gorgo marino, annuncia l’immersione in una dimensione introspettiva di isolamento e rinascita nella quale sarà avvolta ogni traccia. L’atmosfera dell’album si delinea, di conseguenza, come una rievocazione di questa intimità riflessiva ovattata e acquatica, un mistico luogo mentale che a sua volta ricorda con vividi accenni la soffocante formazione terrena di Moses avvenuta finora. Sullo sfondo, echi alla migliore Solange Knowles di “A Seat at the Table” (2016): in “Cut Me” il canto si eleva a racconto generazionale accompagnato da delicati e rarefatti fraseggi al pianoforte e cori che attingono al gospel. “In Bloom” si evolve a partire dal pezzo precedente in uno stile che si può quasi accostare al musical nelle sequenze degli archi e nel monologo accorato di Moses per un amore non corrisposto – tema, questo, ricorrente sottotraccia in tutto l’album – che richiama immagini e suggestioni di tempismo teatrale. Ma è nel primo nucleo dell’album – “Virile”, “Conveyor”, “boxes” – che Moses Sumney si dedica compiutamente alla descrizione della sua passata vita terrena: esaltante, sensuale, e che tuttavia sembrava rinchiuderlo in un’idea claustrofobica di identità etnica e di genere.

La voce di Moses Sumney è graffiante, si stira e si dibatte – difficile non confrontarlo, qui, con gli esperimenti più barocchi di Yves Tumor – nel tentativo di liberarsi dagli stereotipi, incitando una ribellione alle definizioni in cui la comunità black viene ancora costretta; poi si stropiccia e singhiozza nel lungo interludio di “Gagarin” – che forse, tutto sommato, annacqua una struttura altrimenti compatta – per arrivare alle tracce finali, nelle quali Moses sembra riemergere dal ricordo per affrontare le verità della terra, a cui adesso desidera ricongiungersi con uno spirito cambiato. Dopo jill/jack – una rielaborazione di “Cross my mind”, brano presente nell’album “Beautifully Human: Words and Sounds Vol. 2” (2004) di Jill Scott – “Colouour”, vero capolavoro dell’album, si riallaccia all’anima più autentica di Corinne Bailey Rae e al suo “The Sea” (2010) che può essere considerato l’anello di congiunzione tra il cantautorato soul del Duemila e l’intera tradizione nu-soul successiva; la voce di Moses Sumney, ancora una volta, si trasfigura completamente per
raggiungere una timbrica femminile di sorprendente morbidezza: i versi “Look up at the grey hues/ They could all be shades of blue” sanciscono l’arrivo di Moses alla sua verità e riconoscono il valore di una vita spesa tra le sfaccettature, nel rifiuto di un unico io esistenziale e musicale. Moses Sumney approda quindi a una serena coerenza costituita, paradossalmente, dalle contraddittorietà e dalla molteplicità dei propri linguaggi che, sembra dire in “also also also and and and”, in passato gli è stato impedito di esprimere (sarà forse consapevole lui stesso del risultato mutilato di “Aromanticism”?). “Neither/Nor” e “Polly” sono la manifestazione di questo nuovo stato di grazia. Moses (ora più che mai è evidente il legame dell’artista con le radici bibliche del proprio nome) sembra davvero avere trovato un’isola felice in cui rifugiarsi; da qui può iniziare un vero e proprio manifesto-confessione artistico e intellettuale che presumibilmente avrà il suo seguito nella seconda parte del doppio album in arrivo a maggio.

“græ: Part 1” è un album in bilico tra etereo e sanguigno che fa dell’eterogeneità il suo punto di forza, dimostrando per la prima volta tutto il multiforme talento del suo autore. Con questa accorata rivendicazione della propria storia e dei propri valori in equilibrio tra soul, jazz e le nuove sperimentazioni dell’elettronica e dello spoken word, Moses Sumney si conferma come una delle voci da ascoltare con più attenzione nel 2020.

75/100

(Claudia Calabresi)