[Visions] Once Upon a Time in… Hollywood

“Anybody Order Fried Sauerkraut?”

Le congetture, le speculazioni, le domande sull’effettivo avvicinarsi della chiusura della carriera cinematografica di Quentin Tarantino, l’evitare ad ogni costo anticipazioni e le inevitabili aspettative su tutto ciò che circonda, da anni, l’attesa di “C’era una volta a… Hollywood”: ecco il clima ha accompagnato l’uscita al cinema, nelle sale italiane, del film.

Tarantino si è confermato un artista scismatico, si ama o si odia, ma in fin dei conti “Divide et impera”. Il racconto del suo 1969 è sviluppato su una molteplicità di linee narrative: la prima lega Rick Dalton (Di Caprio) a Cliff Booth (Brad Pitt), la seconda è legata all’universo a sé stante dello Spahn Ranch (ex set cinematografico che ha ospitato realmente dal 1967 al 1969 la family di Charles Manson) e la terza è costituita dal personaggio della Tate (Margot Robbie). Lo storytelling è strutturato sull’azione, sulla forza e l’imprevedibilità delle scelte dei singoli personaggi, la sensazione è che al culmine del film tutto si riunirà in un atto, in un momento in cui l’intera struttura sarà più chiara. Il film vive molto meno, rispetto alla tradizione tarantiniana, di dialoghi e intuizioni stilistiche, “C’era una volta a Hollywood” è infatti molto distante da un film come “Eightful Eight”, strutturato su una ridondanza nei dialoghi e su una stasi perfetta dei personaggi, intrappolati nella taverna.

Il personaggio più interessante del film, insieme alla comparsata di Steve McQueen che vediamo nella scena alla Playboy Mansion, è sicuramente Dalton: la storia, la vita e le scelte artistiche (anche quella di viaggiare in Italia) si intrecciano in un universo in cui sono protagonisti tutti i riferimenti stilistici e biografici di Quentin Tarantino, dall’estetica del b-movie fino alle citazioni di Corbucci.

Un passaggio di un’analisi pubblicata su Film Treath: “A single random event can launch you into stardom or sink your career with the Titanic”, esprime probabilmente l’approccio migliore alla lettura del film e della sceneggiatura. L’importanza di ogni singolo evento o atto dei personaggi crea uno storytelling da “Castello dei Destini Incrociati”, capace di adattarsi alla forza dei momenti e alle personalità in scena. Margot Robbie, ad esempio, è capace di cogliere l’essenza di un’epoca con una grazia sognante e fuori dal tempo, la sua è una rappresentazione innocente di una Hollywood devastata dai vizi e dalle insicurezze. Peccato che l’interpretazione della Tate sia poco “sfruttata” all’interno della storia.

Ad essere al centro, più che in altri film, è l’intero universo cinematografico di Tarantino: in “Once Upon a Time in Hollywood” sono continui i rimandi a “Jackie Brown”, nelle scene dell’aeroporto, le sequenze di Dalton legate a “Bastardi senza Gloria”, le pose feticiste legate a “Grindhouse” o le citazioni a Kill Bill. Tutte queste sono delle cifre stilistiche che vanno oltre l’easter egg o l’autocitazione e sconfinano in un grande disegno cinematografico lungo 9 capitoli e trent’anni di carriera.
Basta notare come l’intero personaggio di Cliff sia costruito sull’approfondimento psicologico della figura dello stuntman, che era già stata toccata in Grindhouse.

Cadere nel limbo, in uno storytelling così, è abbastanza semplice: è comunque inevitabile che personaggi che sembrano fondamentali, come Marvin Schwarz, Steve McQueen o Pussycat vengano accantonati da un meccanismo incentrato sull’evento randomico e sulle deviazioni di ogni singola situazione. Il montaggio è riuscito anche a fagocitare Tim Roth, che si è trovato ad interpretare il ruolo di un maggiordomo: questo ci offre una testimonianza sull’immensa mole di contesti che è difficile tracciare completamente con una sola visione.

Scenicamente il film è sostenuto anche dal lavoro rigoroso di Arianne Phillips ai costumi e di Barbara Ling alla scenografia, che riescono a riportare in vita il 1969 e la non-memoria storica di una città come Los Angeles, che si sviluppa in uno status di de-costruzione permanente, tra set di pellicole western, serie tv e grandi colossal.

Manson e la sua “famiglia” sono personaggi perfetti per “Once Upon a Time in Hollywood” e rappresentano il volto terribile e paradossale che trova spazio in un finale diverso e mutaforma rispetto alla reale versione dei fatti.

I legami tra i film di Tarantino non sono certo una novità, dai più piccoli particolari (le sigarette Red Apple) alle macro-caratteristiche dei film: c’è sempre stata una tendenza ad uniformare l’universo cinematografico di Quentin in un unico grande disegno, questa volta però c’è qualcosa di profondamente diverso e si è come consapevoli di essere arrivati ad una storia artistica che si avvia verso un’insospettabile conclusione, magari con la direzione di un capitolo della saga di Star Trek?

“C’era una volta a Hollywood” è, in conclusione, un micro-verso di 2 ore e 41 in cui si compie Quentin Tarantino in ogni suo aspetto, avventurandosi anche in territori fino ad oggi più inusuali e non esplorati nella sua filmografia.