Sharon Van Etten, Arti Vive Festival, Soliera (MO), 7 luglio 2019

Sono da poco passate le 10 di sera quando Sharon Van Etten e la sua band conquistano il palco immerso nell’affascinante cornice rinascimentale di Piazza Lusvardi a Soliera. L’ovazione del pubblico è travolgente. Gli artisti che si sono succeduti nella quarta e ultima serata dell’Arti Vive Festival 2019 (Francesca Bono/Ofelia Dorme, Any Other e Malihini) hanno scaldato il pubblico con esibizioni degne di nota sia sotto il profilo tecnico-musicale che per personalità e presenza scenica. L’entusiasmo è alle stelle quando Heather Woods Broderick dà il via alle danze eseguendo al synth le note iniziali di “Jupiter 4”: la sagoma snella di Sharon avanza nel buio fino a raggiungere il centro del palco dove l’attendono i riflettori, un microfono e gli sguardi di un pubblico spiazzato dalla mancanza di una chitarra fra le mani della 38enne nata a New Jersey. Gli altri strumenti si inseriscono sul tappeto ipnotico del synth uno dopo l’altro e anche Sharon libera nella notte la propria voce eterea, cerca il pubblico con lo sguardo, disegna visioni con le mani, si accarezza il volto mentre canta “Touching your face / How’d it take a long, long time / To be here / Turning the wheel on my street / My heart still skips a beat”, chiude gli occhi quando urla disperatamente “Baby, baby, baby / I’ve been searching for you / I want to be in love”. La dichiarata influenza di Nick Cave, e in particolare di “Skeleton Tree”, si fa sentire, e non solo musicalmente. Le successive “Comeback Kid” e “No One’s Easy to Love” confezionano un inizio di concerto esplosivo nel segno di “Remind Me Tomorrow”.

Con “One Day” e “Tarifa”, struggenti sonate per voce e chitarra, si ritorna al classico, e Van Etten ci ricorda che è ancora una delle artiste contemporanee più talentuose nel rinnovare la tradizione folk americana che va da Dylan, Baez e Springsteen agli Arcade Fire. Si procede per strappi violenti, in un continuo alternarsi di tensione e grazia: “Memorial Day”, “Malibu” e “You Shadow” si susseguono come fossero un unico brano inframezzato da distorsioni e sospensioni noise-rock in pieno stile Sonic Youth. “Hands” è un vortice devastante scatenato dalle esplosioni di chitarra e batteria di Jamie Stewart e McKenzie Smith, Sharon urla, fa deflagrare la chitarra stringendola a sé, brucia sul palco e scarica un’incredibile ondata di energia sui volti attoniti dei presenti. Proprio all’apice dell’impatto sonoro, i membri della band lasciano il palco e Sharon rimasta sola si dirige verso il piano per eseguire la cover di Sinéad O’Connor “Black Boys on Mopeds”, uno dei momenti più intensi della serata: gli intrecci di voce e piano dipingono un inno straziante e tutt’altro che consolatorio contro l’odio dilagante nel mondo: “Remember what I told you / If they hated me they will hate you”. Con un crescendo melodico e spensierato di synth e percussioni,  “Seventeen” si disperde nell’aria facendo rivivere sensazioni adolescenziali come il vento che scompiglia i capelli durante le prime fughe in motorino o i brividi lungo la schiena dopo i bagni notturni a mare: “I know what you’re gonna be, / You’ll crumple it up just to see/Afraid that you’ll be just like me!“, canta la Sharon adulta rivolgendosi a sé stessa adolescente.

“Everytime the Sun Comes Up” e “All I Can” chiudono il primo atto riportando l’ambiente generale verso una dimensione di intimismo minimale che caratterizzerà l’ultima parte del concerto. La ripresa è infatti affidata a “I Told You Everything” e  “Serpents”, canzoni sognanti che hanno in sé qualosa di spezzato, e che lasciano nell’aria una rarefatta atmosfera di sospensione: “I don’t know how it ends” è il sussurro che Sharon posa sul perturbante giro di basso nella chiusa di “Stay”.
La perfomance live dimostra che parlare di svolta elettronica per Sharon Van Etten è altamente riduttivo. Gli arrangiamenti di Jon Congleton e le incursioni di effetti drone, controcanti, harmonium e synth della coppia Broderick/Jamie Stewart hanno certamente impreziosito l’alt-folk di “Are We There”, arricchendolo di un sound più profondo e stratificato, ma è la band nel suo complesso, e Van Etten soprattutto, che ha acquisito quella maturità artistica e umana necessaria per rimettersi in discussione e rinnovarsi esplorando possibilità ancora inedite d’espressione.

 

Testo di Emmanuel Di Tommaso

Foto di Elisa Croci (@emylik77 su Instagram) e Silvia Manzoli (@ohsylvie su Instagram)