BRAINBLOODVOLUME No. 25

Cinque dischi di musica psichedelica, cinque.

JANE WEAVER, “Loops In The Secret Society” (Fire Records, 2019)

Jane Weaver è forse la figura principale per quello che riguarda le cantautrici nel genere psichedelico contemporaneo: il suo percorso più recente a partire da “The Silver Globe” nel 2014 e fino alla consacrazione di “Modern Kosmology” (Fire Records, 2017) ci regala il profilo di un’autrice completa, consapevole delle sue capacità come scrittrice di canzoni, sofisticata, ispirata, capace di raccogliere attorno a sé altri artisti e musicisti di grande profilo e di saperli poi allineare tutti assieme in un ordine che definirei cosmico. Lo stesso cui si ispira questo album, lungo, comprensivo di 22 canzoni, che sono in buona parte la ripresa e delle “loops variation” di tracce tratte dai due album sopra citati. È materiale di “sintesi” quindi, ma pensare a una specie di semplice operazione di recupero oppure a un’opera minore è probabilmente ingiusto. Sicuramente ingiustificato. Al contrario forse è la complessità che rende questo disco difficilmente fruibile, una complessità dettata dal fatto di non essere tipicamente “pop” (eccetto alcuni estratti, vedi qualche cosa tipo “Arrows”, “I Wish”, il sound anni ottanta di “Slow Motion”, oppure “Cells”, la ballad “Code”) e dove gli intermezzi sperimentali di breve durata sono tutto sommato pochi. È un’opera che va valutata nel suo complesso, ispirata a una scienza illustrata dentro un planetario stroboscopico e tanto alla musica cosmica degli anni settanta, rivista in una chiave slow-motion, la ricchezza dell’uso di eco e riveberi e voci sottomarine, un certo thrilling di taglio cinematico (“Element”, “Mission Desire”, “Signs Are Rising”, l’Anton Newcombe di “Ravenspoint”…) e roba tipica del catalogo Finders Keepers nell’ambito della elettronica più sperimentale. Più che semplice minimalismo e altro che una specie di liturgia sacerdotale psichedelica, “Loops…” è una discreta opera di musica cosmica che invece che guardare a forme di naturalismo, guarda in maniera dritta “speciale” allo spazio e sfonda letteralmente un altro muro di confine per questa grande artista che non è mai banale e che non si lascia condizionare da nessun cliché e caratterizzazione pre-confezionata.

72/100

THE BLANK TAPES, “Super Bloom” (Brown Truck Records, 2019)

I Blank Tapes di Matt Adams ritornano un anno dopo l’ottimo LP “Candy” con un EP uscito da un mesetto su Brown Truck Records su cassetta e in formato digitale e che ne ripropone il sound tipicamente pop-psichedelico sixties e temperato di quella calura estiva e evocativa che non può che affondare le sue radici nella west coast californiana. La formazione qui si completa con la collaborazione qua e là di Avid Dancer e Will Halsey alla batteria e alle percussioni e di Jason Cirimele al basso, ma i Blank Tapes si possono definire a tutti gli effetti un gruppo solista del solo Adams, che ha registrato il disco in diverse sessioni in giro per la California, riuscendo comunque a dare vita a un lavoro unitario e che nella sua brevità (solo sei tracce) offre un campionario completo delle “skill” di questo musicista che ha sicuramente una inventiva e un talento compositivo pop che sono meritevoli di attenzione. Pure senza inventare nulla, Matt Adams butta giù sei canzoni che rilanciano il mito della pop-rock psichedelia anni sessanta da quella più accattivante tipo “Loaded” dei VU shakerati in uno stato di trance subliminale (“Super Bloom” e “Exotica”), pezzi strumentali con atmosfere californiane e interessante uso dei bassi come “Sweat Lodge”, l’ispirazione Syd Barrett dei sette minuti di “Get Yourself Down”, che si chiude poi con una coda elettrica che sembra guardare al Pacifico dall’alto delle colline di Big Sur in una specie di volo ideale che si esalta nelle trame di “El Scorcho” e l’organetto lisergico di “Jreaming” e il conseguimento di uno stato di pace interiore concesso dai guardiani dell’ordine cosmico, dei le cui leggi sono sempre realizzate e sottoforma di pioggia del cielo e che ci dona abbondanza di miele.

65/100

NIGHT BEATS, “Myth Of A Man” (Heavenly Recordings, 2019)

Questo disco è sorprendentemente brutto. Certo, dopo averlo ascoltato, mi sono andato a leggere un po’ di informazioni e ho capito perché: ma dato che “Who Sold My Generation” (2016) mi aveva veramente esaltato, mi aspettavo ovviamente qualche cosa di molto buono dal nuovo disco dei Night Beats di Danny “Lee Blackwell” Rajan Billingsley e invece… Invece ecco un disco senza la storica sezione ritmica, rimpiazzata da musicisti fin troppo scafati per suonare un rock and roll garage come quello che il gruppo aveva suonato fino a questo momento, e prodotto nientepocodimeno che da Dan Auerbach dei Black Keys: ragione che spiega facilmente perché “Myth Of A Man” sia un disco veramente brutto. Se non inascoltabile. Perché dei Black Keys e del cattivo gusto del suo esponente di punta riprende lo stesso stile scadente e la scarsa ispirazione negli arrangiamenti, quella pochezza di gusto e che qui vediamo sciorinare pezzo dopo pezzo con ballate che cercano di essere inutilmente accattivanti come “Her Cold Cold Heart”, “I Wonder”, più o meno oscure tipo BRMC come “One Thing”, “Footprints”, la bluesy “Yoo Young To Pray”, il sound west-coast di “Stand With Me”, “Let Me Guess”, la pop-psichedelia di “Wasting My Time”, ecc. ecc. Insignificante. Non lo voto neppure.

75 DOLLAR BILL, “I Was Real” (Glitterbeat, 2019)

Questo è uno di quei dischi che alla fine puoi solo giudicare positivamente. Del resto davanti a due musicisti come Che Chen e Rick Brownbaulk, titolari del progetto 75 Dollar Bill e arrivati con questa pubblicazione al terzo LP nel giro di due-tre anni, io mi tolgo tanto di cappello. Il duo di base a New York è una di quelle combinazioni che effettivamente non ha poi tanto bisogno di pubblicare degli album, resto in effetti convinto che le loro composizioni siano per lo più oggetto di una certa istintività e un approccio molto professionale e allo stesso tempo open-minded e che non li tiene vincolati quindi a forme predeterminate. “I Was Real” esce anche per la Glitterbeat, ma questa non è una casualità, perché l’album è effettivamente infetto di quel virus Tuareg tipicamente Tinariwen e che contraddistingue la maggior parte dei pezzi, che si caratterizzano per essere per lo più di lunga durata (abbiamo anche una vera e propria “suite” che spacca a due parti il disco), scelta che ne arricchisce il carattere ossessivo e ipnotico. Ciononostante, pure se si può definire un album in qualche maniera ripetitivo, perché questa è una scelta specifica, proprio nello stile vi riconosciamo quella flessibilità mentale quasi zappiano e allo stesso tempo la visione internazionalista e dedita con particolare attenzione poi al Mediterraneo di Sir Richard Bishop. In maniera quasi improvvisa imperversano sapori mediorientali e sviolinate che sembrano calare dal Nord Europa in quella regione mitteleuropea che fu crogiuolo di culture e da dove poi si mossero in diverse direzione i popoli che giungevano dal cuore dell’Africa. Andate e riproducetevi, egli disse, e nel solco di questo invito specifico e che vuole poi trasmettere a suo modo una atavica fiducia nel prossimo, vi sollecito all’ascolto, che va oltre l’intrattenimento, l’esplosione psichedelica drone e a momenti anche VU, ma sa essere meditazione e contemplazione di sé come dell’infinito. Non vi aspettate un capolavoro, ma se lo mollate e lo lasciate stare lì senza dedicargli neppure un ascolto, francamente non capisco proprio che stiate leggendo a fare queste poche righe. Resta più interessante lo stile di Che Chen che quello più articolato, eppure meno efficace, di Brownbaulk, ma il primo è effettivamente una potenza della natura e un chitarrista che non ha paura di trasmettere tutta la sua elettricità.

72/100

EFRIM MANUEL MENUCK & KEVIN DORIA, “are SING, SINCK, SING” (Constellation, 2019)

Su di me il mito del post-rock, che ha infettato tutta la mia generazione in età post-adolescenziale, non ha mai attecchito. Al contrario, vi ho sempre colto quella autoreferenzialità, che considero l’incapacità di una intera generazione di darsi una identità proprio e una forza espressiva sul piano culturale: è stato citazionismo a basso livello, pretese intellettuali, a tratti manifestazioni pompose e che sono sfociate nel cattivo gusto. Cionondimeno va detto che questo non vale per tutti e alcuni artisti avevano effettivamente delle cose da dire. Il loro “peccato” è stato cadere a tutti i costi in questa specie di trappola e adesso, chi è uscito fuori da quel grande buco nero, ci dimostra di avere contenuti. Efrim Manuel Menuck (Godspeed You! Black Emperor, Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra), qui in un breve album in collaborazione con Kevin Doria (Growing, Total Life) ribadisce questo principio in un album intitolato “are SING, SINCK, SING” uscito su Constellation e ispirato musicalmente a visioni e incubi sotterranei, che sembrano quasi dei Suicide rigirati al rallentatore. Riecheggia una eco wave nella interpretrazione vocale dei testi che sanno di una disperazione post-Joy Divion a quarant’anni dall’uscita di “Unknown Pleasures” e che sono sublimate da un tappeto space music drone fatto di oscillazioni cosmiche sintetiche che sono un ibrido tra esperienze kraut anni settanta, emozionalità shoegaze e visioni psichedeliche alterate. Come posseduto, in uno stato di trance e perdita di coscienza, eppure allo stesso tempo lucido come uno che possiede appieno le capacità della ars retorica, Menuck recita la sua litania e ci fa rivedere lo spirito autentico de gli Spacemen 3, senza raggiungere le vette di quegli epigoni dell’Apollo 11, ma quantomeno riproponendo il tema del viaggio nell’uomo sulla Luna in vista di un altro anniversario non di inferiore portata di quello dedicato a Ian Curtis e compagni.

70/100

Emiliano D’Aniello

Foto: visioni di Bridget Riley.