“The Stone Roses”, il trentennale


Mettiamola così: un album che è una specie di concept su Gesù Cristo, iniziando con “I Wanna Be Adored” e terminando appunto con la resurrezione di “I Am the Resurrection”, non poteva avere che una sorte rivoluzionaria e fortunata nel tempo. Ancor oggi è album amato e che non prende polvere nei nostri oramai metaforici scaffali, ma è fotografia viva e limpida di un periodo, scintilla di almeno un paio di movimenti (quello baggy/madchester e il successivo britpop), e musica pulsante e contemporanea nonostante i 30 anni compiuti oggi.
Qui a Kalporz abbiamo pensato meritasse un’analisi brano per brano, anche se il consiglio è sempre il solito quando si parla di album così storici: riascoltarseli tutti d’un fiato.

1. “I Wanna Be Adored”

Chi è che ha bisogno di vendere l’anima? Ian Brown non ha dubbi: di certo non lui. Lui vuole essere adorato. Mentre la scala pentatonica abbraccia, come un Debussy deviato e difforme, il brano, gli strumenti si muovono paralleli senza mai sovrapporsi completamente. È una dissezione armonica del rock, dei suoi miti, in un crescendo epico che non rinuncia mai al minimalismo. Tutto nasce dal caos del feedback, cui può dare ordine solo la pastosa profondità del basso, prima che le chitarre irrobustiscano e diversifichino il suono e la grancassa anticipi l’ingresso della voce. Dopo trent’anni Madchester non è più Mad, il pop è roba per vecchietti – per non parlare del rock. Ma non si può smettere di voler essere adorati. Chi è che ha bisogno di vendere l’anima?

(Raffaele Meale)

2. “She Bangs The Drums”

“She Bangs The Drums”, secondo singolo estratto dall’omonimo esordio, rappresenta per gli Stone Roses la prima affermazione nelle classifiche nazionali a cui faranno seguito anche le ospitate televisive – apice il passaggio a Top Of The Pops con “Fools Gold”. Condiviso tra il cantante Ian Brown (autore dei versi) e il chitarrista John Squire (suo il refrain) il pezzo è un inno alla libertà individuale che unisce musicalmente elementi diversi, dal beat molto new wave di Reni sulle orme di “Just Like Heaven” dei Cure alla chitarra di Squire che dipinge – come nei suoi quadri – melodie jangle per poi irrobustirsi nello stacco centrale. “The Past Was Yours But The Future Is Mine / You’re All Out Of Time”: è il biglietto da visita perfetto dei quattro, che usavano l’immagine dell’ Egg per descrivere il loro essere insieme, tanto nella noncuranza del mondo esterno quanto nella volontà di essere i migliori. Del resto Brown affermava che “We Wanted To Finish Groups Like U2, They Were Pompous And So Big, With Nothing To Say. We’re Better Than That.” I 27000 presenti al concerto di Spike Island del 27 Maggio 1990 avranno sottoscritto in pieno queste parole.

(Matteo Maioli)

3. “Waterfall “

“Waterfall” è uno dei tanti (lo sono quasi tutti va detto) momenti catartici dell’omonimo debutto degli Stone Roses. Un brano manifesto che mette in mostra quello che era il lato sixties dei quattro di Manchester. Quel jingle jangle di chitarra, riverberato e che pare potersi ripetere all’infinito, è forse uno dei suoni che vengono subito in mente quando si pensa al quartetto di Manchester. Tutto il primo disco ed in particolare alcuni brani come “Waterfall” rappresentavano una sorta di trait d’union tra passato e presente (sul finire degli anni ’80) musicale: la summer of love era l’attualità, con l’elettronica che partendo dal sottosuolo di faceva spazio nella tradizione musicale britannica prima ed europea poi.

(Francesco Melis)

4. “Don’t Stop”

Il backmasking è tecnica controversa, si sa, ed è noto altresì (oltreché facilmente udibile anche ad un orecchio non attento) che “Don’t Stop” sia “Waterfall” suonata al contrario. Ma gli Stone Roses non erano ovviamente interessati a messaggi satanici o roba del genere, piuttosto il loro mondo è estetico, colorato e caleidoscopico come le pennellate impazzite alla Pollock della copertina (opera del chitarrista John Squire) per cui “Don’t Stop” è solo un modo per giocare con le loro dilatazioni e suggestioni. Del resto nel 1989 eravamo all’inizio dell’ecstasy generation, della MDMA e della cultura baggy.
“Don’t Stop” è quindi il partire da uno stato di incoscienza sonora (l’effetto reverse) e conferirgli un nuovo humus con un testo e melodia differente. Come a dire che quando sei fatto il mondo è realmente diverso, non è solo euforia.
Don’t stop, isn’t it funny how you shine?

(Paolo Bardelli)

5. “Bye Bye Badman”

Tutte le rivoluzioni hanno bisogno di simboli, e “Bye Bye Badman” ci racconta il lato visivo anarchico della cover dell’esordio degli Stone Roses. “Choke me smoke the air / In this citrus sucking sunshine / I don’t care you’re not all there” canta Ian, e si riferisce al racconto che negli scontri giovanili del ’68 a Parigi i rivoltosi usavano il succo di limone come antidoto ai lacrimogeni. Da lì i limoni della copertina, e ovviamente pure i colori della bandiera francese. Ma sarebbe sbagliato considerare “Bye Bye Badman” solo il banale ritratto di una guerriglia urbana, perché la song possiede un incredibile approccio scanzonato e beffardo sia nelle liriche (“Oh these French kisses Are the only way I found”) ma soprattutto nel mood, che utilizza aperture beachboysiane e una languida allegria che farebbe a pugni, è proprio il caso di dirlo, con il testo (“I’ve got bad intention / I intend to knock you down”). La chiave di lettura è dunque tutta lì, nell’apparente contrasto tra il drumming balzandoso, le armonie solari e i riots a cui fa riferimento.
La rivoluzione di chi è tranquillo di avere ragione.

(Paolo Bardelli)

6. “Elizabeth My Dear”

Breve digressione – soli 55 secondi – di voce e chitarra acustica. Il tema riprende un’antica ballata popolare di controversa origine che si perde nella vecchia Inghilterra. “Scarborough Fair Canticle” era uno stralunato contrasto di argomento amoroso in cui una ragazza veniva chiamata a compiere una serie di imprese impossibili. Nel corso del tempo la canzone è stata rielaborata fino alla versione celebre di Simon & Garfunkel del ’66 contenuta in “Parsley, Sage, Rosemary and Thyme”. Ian Brown nell’album compie un’azione irriverente mettendo al centro di un nuovo testo la regina, da sempre baluardo della conservazione di una tradizione stantia in contrasto con il continuo rinnovarsi dello spirito di protesta insito nella controcultura giovanile britannica: “My aim is true/My message is clear/It’s curtains for you Elizabeth my dear”.

(Eulalia Cambria)

7. “(Song for My) Sugar Spun Sister “

Anche dentro a un disco come questo, che entra in tutte le classifiche dei DDAA, Dischi Da Avere Assolutamente, ci sono delle canzoni “normali”, come questa. Sorvolando sul concetto di normalità, ho sempre pensato che siano necessari uno o due “pezzi normali” dentro a un capolavoro. C’è bisogno di rifiatare, quando si è circondati da tanta bellezza, come dare un’occhiata ad un bagnante seminudo nei pressi della sublime proboscide dell’Étretat.
Che poi, a dirla tutta, “Sugar Spun Sister” è anche un bel bagnante, fa la sua discreta figura, vicino a certe pietre miliari, con il suo tipico incedere Baggy-Madchester e frasi come “every member of parliament trips on glue” a predire un futuro che è il nostro presente.

(Max Cavassa)

8. “Made of Stone”

Se dovessi banalmente ridurre gli Stone Roses ad un’unica canzone la mia scelta cadrebbe su “Made Of Stone”, emblema con “Wrote For Luck” degli Happy Mondays e “Come Home” dei James della Summer Of Love e del baggy sound mancuniano di fine ottanta. Eppure nasce su ben altre fondamenta, dato che il chorus ricalca pari pari la melodia discendente di “Velocity Girl” dei Primal Scream, una fugace lettera d’amore a Byrds e Thirteen Floor Elevators realizzata nel 1986 e inclusa nella compilation dell’NME. John Squire era solito andare ai concerti degli scozzesi e oltre a “rubarne” l’idea trasferì nella sua band quel look stradaiolo fatto di eccessi con le droghe e stile nell’abbigliamento. Quindi in “Made Of Stone” gli Stone Roses guidano il pop che aveva caratterizzato l’underground britannico verso lidi psichedelici e ritmi desueti buoni per gli amanti della cultura hippie e/o dei dance floor alternativi che spingono l’acid-house, lo Shoom di Londra come l’Hacienda di Manchester. Le variazioni improvvise di tema fanno la forza di questo pezzo, centrale nella discografia dei Roses, e la linea di basso di Gary Mounfield (Mani) da capogiro.

(Matteo Maioli)

9. “Shoot You Down”

Nell’avvicinarci alle battute finali l’incidere rallenta e incontriamo il pezzo più rilassato e sornione dell’intero album. In “Shoot you Down” al di sotto la voce vellutata di Ian Brown e degli ornamenti chitarristi di John Squire si insinuano gli intarsi ritmici di Mani e Reni che forse delineano, a ben vedere, il principale punto di forza di questo disco. L’armonia vocale seguendo una modulazione manifestamente beatlesiana descrive una relazione opprimente, ma del tutto irrinunciabile; una di quelle storie giovanili che non riescono a spegnersi vuoi per pigrizia e vuoi per abitudine. Dopo che i due rimangono insieme il brano in chiusura si infrange nel leggero groove circolare di basso e batteria. Piccola curiosità: i Flaming Lips, a riprova del loro amore verso questo lavoro, nel 2013 hanno pubblicato un album dove reinterpretavano tutti i brani in esso contenuti che non a caso ha per titolo: “The time has come to shoot you down… what a sound”.

(Eulalia Cambria)

10. “This Is the One”

Tra i brani registrati nel 1985 dal produttore Martin Hannett fu abbozzata una prima versione di questa canzone che tuttavia non conobbe una pubblicazione ufficiale prima del 1996. Hannet chiese alla band di rinchiudersi in studio fino a quando la composizione non venne ultimata. L’originale, contenuta in “Garage Flower”, risulta assai meno epica e quasi sussurrata rispetto a quella che andrà a finire nell’album di esordio. La potenza di “This is the One” riesce a trasformarsi in un vero inno da stadio tanto da venire adottata e intonata persino dal Manchester United prima di ogni partita all’Old Trafford. Ian Brown a riguardo ha detto in un’intervista: “Ho scritto quella melodia nel 1986 quando ero disoccupato, e non avrei mai potuto immaginare che 20 anni dopo sarebbe stata suonata dal Manchester United mentre scende in campo. Ogni volta mi colpisce. E’ una sensazione incredibile”.

(Eulalia Cambria)

11. “I Am the Resurrection”

Un disco che si appresta a diventare “storico” non si può chiudere con un brano normale o, ancora peggio, anonimo. Probabilmente gli Stone Roses questo lo avevano capito da subito. “I Am The Resurrection”, nella sua infinita versione di oltre otto minuti, rende giustizia a uno dei debutti discografici più esaltanti degli ultimi decenni. Un altro degli inni stonerosesiani in cui la parte del leone lo fa il testo, assolutamente epico, e la coda finale con la chitarra di John Squire in prima linea. Chissà se la band s’era resa conto di avere in mano un inno generazionale quando terminò di scrivere il brano.

(Francesco Melis)