BRAINBLOODVOLUME No. 19 : THE GLUTS, “Dengue Fever Hypnotic Trip” (Fuzz Club Records, 2019)

Ritornano i Gluts, che in questo momento sono forse il gruppo psych italiano più in vista a livello internazionale e in generale uno dei gruppi di punta della Fuzz Club Records e questo significa che, come i capitoli ultimi in maniera più specifica e particolare, parliamo di una musica che ha un carattere ipnotico e claustrofobico e allo stesso tempo un sound elettrico e tagliente secondo un format no-wave che è forse il marchio di fabbrica che perdura da più tempo dalle parti della label londinese.

Ora ci sarebbe una storia dietro la genesi di “Dengue Fever Hypnotic Trip”, che poi è riassunta nel titolo dell’album stesso e che rimanda a quello che si potrebbe definire come “mal d’Africa”. In effetti durante un viaggio in Africa, Claudia Cesana, bassista del gruppo (altri componenti del gruppo sono i fratelli Nicolò J. e Marco Campana e il bassista Dario Bassi) è stata disgraziatamente colpita allo stesso tempo dalla febbre dengue e dalla malaria, una coincidenza che ha portato tutti a raccogliersi attorno a lei, che se ne stava in ospedale protetta dalla barriera invisibile costituita da quella che poi era a tutti gli effetti una specie di “zanzariera”, in una comunione di intenti che sul piano progettuale è poi andata a finire proprio nella realizzazione di questo disco, che è idealmente un continuum del precedente album “Estasi” per il carattere ipnotico e ossessivo, ma evidentemente pure un suo superamento.

Poi ci stanno anche altre storie, tipo quella lì che riguarda la pratica di leccare il dorso delle rane allo scopo di scatenare allucinazioni acide nel segno di una psichedelia che quindi si richiama a un contatto con forze ancestrali della natura e stati subliminali, che prevedono un asservimento a forze primitive della natura, un viaggio lisergico che qui ha poi come punto di arrivo un incontro, una danza caleidoscopica che è un rito consumato da tutti e quattro i componenti del gruppo in sette movimenti, che sono una manifestazione del teatro giapponese tradizionale, i corpi si muovono con leggiadria e una simmetria squadrata, che sai già dove andrà a finire, ma che suscita comunque sgomento come in “Leviathan” oppure il furore noise e i miri di “Dalal’s Song”, le reminiscenze Dead Skeletons di “De Witte Jager”. In buona sostanza i punti forti di un album che nel resto riprende in larga parte temi cari a questo gruppo, ma con una maggiore consapevolezza e claustrofobia che in passato e con un atteggiamento espressionista bene orchestrato dalla produzione sapiente di Enrico Mangione in partnership con un big come Bob de Wit (Gnod e A Place To Bury Stranges) e che in effetti va a pescare molto dal suo repertorio post-punk e art-noise.

L’immagine di questo disco in definitiva forse più che quel mal d’Africa richiamato, mi sembra quindi più avere a che fare con le rane, animali strani del resto e che mutano la propria natura, le proprie abitudini, così come cambia il clima e il mondo che ci circonda: il grido di allarme di una società impazzita. Eccola qua.

(Emiliano D’Aniello)