[BBV No. 20]: JUJU, “Maps & Territory” (Fuzz Club Records, 2019)

Ritorna Gioele Valenti, che avevamo intervistato qualche tempo fa, con il progetto Juju e un nuovo disco in uscita per la Fuzz Club Records il prossimo 31 maggio.

Esponente di punta della scena alternative e psichedelica del nostro paese, Gioele è in giro dal 2000, quando avviò il progetto Herself, una carriera proseguita poi con la fortunata esperienza Lay Llamas in partnership con Nicola Giunta, come chitarrista di Josefin Ohm And The Liberation e approdata infine a queste pubblicazioni con il moniker Juju, intervallate da collaborazioni diverse come quelle ultime con Jonathan Donahue dei Mercury Rev e i Goat.

Proprio il percussionista dei suoi compagni di label (Goatman), suo buon amico e già al lavoro con Gioele nell’album precedente, è uno dei collaboratori anche nelle registrazioni dei pezzi di “Maps & Territory”, un titolo ispirato deliberatamente al momento storico e dove si alzano muri in tutto il mondo, dagli USA di Donald Trump alla Gran Bretagna della Brexit e poi nel cuore della vecchia Europa. A partire dall’Italia, l’Ungheria e in generale tutta l’Unione Europea che adesso si avvicina alle elezioni più importanti della sua storia.

Nel comunicato stampa si parla di ispirazioni dalla magia ctonia e dal neo-paganesimo mediterraneo. In fondo componenti di questo tipo sono evidenti sin dalla prima traccia (“Master And Servants”) nell’uso delle percussioni e sfumature nord-africane, riff di chitarra circolari e che si intrecciano a una attitudine wave sempre presente.

L’uso delle percussioni si amplifica ovviamente, com’è naturale, nella seconda traccia “I’m In Trance”, probabilmente il pezzo forte del disco, ispirato a forme ossessive di afro-beat e che verte in una direzione tipo dance-floor acida. Lo stesso groove viene ripreso in “Motherfucker Core” con uso delle chitarre elettriche che quasi ricorda Lou Reed, mentre la liturgia sciamanica “If You Will Fall” con l’uso di effettistica John Lennon e la psichedelia cosmica gioiosa di “God Is A Rover” hanno un carattere più armonioso e un approccio quasi naturalista. Sorprende infine il jazz elettrico d’avanguardia e le dimensioni acide e il groove di “Arcontes Take Control”, realizzato con la partnership di Amy Denio.

In definitiva, si può dire che si tratti di un disco coraggioso e che sperimenta in diverse direzioni. Resta qualche perplessità sul fatto che forse queste siano troppe. In generale direi che manca una certa componente unitaria e che la dizione del titolo di conseguenza sia in qualche maniera “generica”, come andare a pescare diversi punti su di una mappa geografica e creare una qualche forma geometrica che abbia una connotazione mistica segreta. Io non credo di essere riuscito a decifrarla, mi tengo tuttavia stretta la bellezza delle canzoni e la porta che si apre con l’ultima traccia dell’album che lascia intravedere invece che muri, prospettive di ampio raggio che meritano di essere perseguite.

(Emiliano D’Aniello)

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