SOLANGE, “When I Get Home” (Columbia, 2019)

Solange Knowles può finalmente permettersi di tutto, un po’ come la più popolare e celebrata sorella maggiore. “When I Get Home” esce senza preavviso il 1° marzo, dopo un paio di teaser che in poche ore lo rendono trend topic su tutti i canali e senza nemmeno menzionare i numerosi e incredibili collaboratori presenti tra i credits. In fondo non è mai stato un discorso di cognome o di famiglia perché Solange è sempre andata per la sua strada in un percorso assolutamente personale che l’ha portata attraverso passato e futuro dell’R&B.
Dopo gli esordi da predestinata meteora del genere come “Solo Star” e “Sol-Angel and the Hadley St. Dreams” la collaborazione artistica con Dev Hynes aka Blood Orange a partire dall’EP “True” del 2012 hanno definitivamente trasformato la sorellina di Beyoncé coccolata da Columbia in una delle artiste contemporanee più raffinate ed eleganti. Il problema di Solange è sempre stato quello di avere un profilo e un’immagine troppo pop per sedurre il pubblico più avverso al mainstream e di essere troppo ricercata, o semmai poco ruffiana, per arrivare in cima alle classifiche. Ma di questi tempi, si sa, la distanza tra mondo indipendente e mondo mainstream, grazie a un decennio di meritato strapotere black, si è praticamente azzerata.

E così Solange, anche grazie a performance memorabili nei festival che contano, come il Primavera Sound che ha deciso di promuoverla a headliner nell’edizione più discussa e controversa della storia del festival, progressivamente è diventata una delle voci femminili più credibili e trasversalmente apprezzate del momento. “A Seat On The Table” non scivola mai nel compromesso più smaccato con le sonorità da classifica eppure arriva al primo posto ovunque (non solo nelle classifiche di gradimento dei magazine più prestigiosi), conquistando un disco d’oro che, per intenderci, secondo le certificazioni americane, equivale ancora a 500mila copie vendute.
“When I Get Home” continua questo percorso. È la storia di un ritorno a casa, la sua Houston, e alle sue origini che racconta in meno di quaranta minuti la musica black contemporanea in tutti i suoi aspetti, dal nu-soul a piccole suggestioni trap, e con alcuni dei suoi esponenti più influenti. Non a caso, fatta eccezione per Panda Bear, questa incredibile pletora di collaboratori e guest è una sorta di all star di voci e musicisti afroamericani: Pharrell, Sampha, Playboi Carti, Gucci Mane, Tyler, the Creator, Metro Boomin, The-Dream, Steve Lacy, Earl Sweatshirt e ovviamente Dev Hynes.

Nessuno di loro emerge troppo né dà particolari sferzate in un amalgama jazzy e avvolgente, liquido e levigato che lascia Solange al centro delle composizioni. “Almeda”, uno dei momenti più alti, emozionanti e originali sintetizza al meglio questo ponte tra storia e presente della musica black. Solange è “Down With The Clique”, brano jazzy senza tempo, ma al tempo stesso “Sound Of Rain” dove torna nel future R&B e l’effetto è quello di una collaborazione tra Kelela e Beyoncé. Testi molto intimi e biografici si mischiano a frasi forti e a effetto sull’emancipazione afro-americana sul solco dei temi presenti in “A Seat On The Table”.
Tra ballad senza tempo come “Time (Is)” e “Jerrod” e interludi che disorientano e regalano ai cuori più deboli una piccola pausa, improvvisi divertissement notturni come “My Skin My Logo” e capolavori da unica erede possibile di Erykah Badu come “Stay Flo”, Solange è più semplicemente Solange: una ragazza di trentadue anni con un talento e un gusto smisurato che nei suoi dischi “adulti” sta scrivendo uno dei capitoli più autentici e alti della storia della musica black.

87/100