POND, “Tasmania” (Interscope, 2019)

Presente quando questi squadroni vanno in campo con le seconde linee e vincono lo stesso? Ecco, proviamo a sottrarci all’abitudine di affrontare i Pond come se questi fossero dei “Tame Impala B”. O, più precisamente, quei “Tame Impala B” che  ci piacciono pure ma che non riusciamo a considerare come un’entità autonoma. Potremmo cambiare prospettiva per tante ragioni. Una è che il leader Nick Allbrook (che ha suonato coi Tame Impala fino al 2013) ormai non può essere relegato al ruolo di uno “da cantera”. E poi ci sono altre ragioni che, abbiate fede, ora arrivano. Sono motivazioni adagiate, in effetti, sotto a una fittissima trama di connessioni e assonanze con la band di Kevin Parker.

Parker era il batterista dei Pond fino al 2011 mentre oggi si colloca, più arretrato, sulla chaise dietro al mixer. La sua mano, come è ovvio, si sente. In particolare contribuisce ad enfatizzare la presenza massiccia di sintetizzatori e benedice certe sintesi gommose di basso e batteria. Però, proprio a proposito di gomma, forse è più forte il paragone con un altro progetto (fra i tanti) della famiglia Tame Impala: i GUM, ovvero l’alias di Jay Watson.  Si deve anche a Jay Watson la presenza all’interno dei Pond di una simile spinta funk robotica che, per quanto suoni strano, non trascura una ragione sociale dichiaratamente psichedelica. Già dal precedente lavoro (“The Wheather”) i Pond avevano limato il profilo più tradizionalista. La linea che viene consolidata in “Tasmania” è quella di un pop psichedelico che sa di contemporaneità.

Il risultato, a dire il vero, si colloca più lontano di quel che sembra dal mainstream che di solito bazzica Parker. Il fatto che si scelga la via dei synth non chiude affatto la strada a una tradizione di ambienti dilatati e strutture  progressive. Senza una reale discontinuità rispetto alla storia dei Pond, questo suona come un disco del suo tempo, di questo tempo. Un album in cui l’elemento ritmico s’imbeve di black e di 70’s rigenerati. I sussulti melodici più azzeccati vengono da una cultura che (senza vergogna) beve AOR per poi magicamente pisciare quella che a volte sembra una personale forma di dream pop (“Hand Mouth Dancer”). Lascia il segno il singolo “Daisy” (e relativo video accorato), così come la title track, nonostante ci sia sempre qualcosa d’inspiegabilmente infantile nei ritornelli col nome geografico. Le chitarre non sono sotto la luce più grossa ma non significa che il disco non possegga un sano dosaggio di caos. Su tutte s’innalza “Sixteen Days “, splendido funk bianco con un utilizzo sfrontato del vocoder  che ne fa la traccia win-win di “Tasmania”. Glam, autoironico, vincente e sfigato: ogni tanto Nick Allbrook sembra Beck. La seconda parte del disco non regge benissimo il confronto con la prima, specialmente laddove prevale parecchio il pedale del freno. “Tasmania” e i Pond non vincono il campionato ma hanno i conti in ordine per potercisi iscrivere per cavoli loro.

70/100

(Marco Bachini)