I HATE MY VILLAGE, “I Hate My Village” (La Tempesta, 2019)

Il 2019 della critica musicale sui quotidiani nazionali è iniziato come al solito alla grande, con un articolo del Sole 24 Ore intitolato “Spegnete la musica italiana” nel quale l’autore, tirando le somme sulle pubblicazioni discografiche dell’anno appena terminato, lamenta che lui e (a quanto pare) un cospicuo numero di persone “nel 90 per cento dei casi in ciò che ha prodotto l’industria musicale italiana” non si sono ritrovati granché. Attraverso una strana equazione secondo la quale la musica creata nel nostro paese è unicamente quella presente nella classifica FIMI, l’articolo si dilunga in un elenco di citazioni random di Jimi Hendrix e luoghi comuni come “la trap è brutta e cattiva, qualcuno pensi ai bambini”, “le canzoni di Calcutta con 2000 lire il mio falegname le faceva meglio”, “una volta qua era tutto indie rock e Umberto Tozzi, ora dove andremo a finire?”. Tolto il fatto che leggere articoli del genere fa venire voglia di drogarsi di codeina e installarsi un autotune in gola, anche questo sembra un caso giornalistico in cui si generalizza parlando male dell’Italia musicale “intera” senza considerare che 1) il pop fa schifo in modo costante negli anni, la qualità (o l’assenza di qualità) nelle classifiche e nell’airplay radiofonico è la stessa dalla notte dei tempi, quindi è difficile provare concretamente che “era meglio prima” 2) in Italia c’è, forse ora più che mai, un’incredibile scena di musicisti, di qualsiasi genere, che fanno quello che vogliono a prescindere dall’aria che tira nel mainstream sfornando lavori di grande qualità (e, perché no, italianità) che ci rappresentano all’estero molto più che Il Volo. Uno degli insiemi più produttivi del sottobosco nostrano è quello costituito dai tecnicissimi (ma non riccardoni) e versatili musicisti che gravitano sull’asse Roma-Milano ed alternano una carriera da turnisti in progetti nazionali ed internazionali (come PJ Harvey e Nic Cester) a un’altra da ideatori di un elenco infinito di band come di Calibro 35, Jennifer Gentle, Zeus, Bud Spencer Blues Explosion, La Batteria, Fuzz Orchestra, Arto e così via. Il filo conduttore tra questi progetti, oltre la già citata abilità tecnica, è un mix di fedeltà alla tradizione italiana, quella della library music e dei grandi compositori di colonne sonore dal respiro internazionale, e fascinazione per mondi sonori lontani, dal delta blues al thai funk passando per il metal estremo. La prima uscita discografica significativa del 2019 in Italia è un nuovo progetto nato proprio all’interno di questa comunità allargata di musicisti, I Hate My Village, band composta da Adriano Viterbini, Fabio Rondanini e Alberto Ferrari dei Verdena. Il trio si era già formato in fase embrionale nel bellissimo e troppo poco celebrato “Film O Sound “(2015), secondo lavoro solista di Viterbini, in cui comparivano già la batteria esplosiva di Rondanini in “Tubi Innocenti” e la voce di Ferrari nella cover di “Bring It on Home” di Sam Cooke. Anche stavolta il mondo musicale di riferimento è l’Africa, in modo però più marcato e violento rispetto alle citazioni sparse di “Film O Sound”, perché dalle cover sognanti di Miriam Makeba di quell’album si passa alle ritmiche convulse ed i riff squadrati di Ali Farka Touré e Bombino, ovvero un approccio chitarristico che si interseca a meraviglia con gli assoli malati alla Jack White a cui ci ha abituato la metà dei BSBE. Un’Africa rivisitata con occhio occidentale, quello che in “I Ate My Village” (stavolta senza acca) e “Presentiment” fa ricordare le costruzioni math rock dei Battles. Si sente che, come racconta lui stesso nelle interviste, l’aggiunta della voce di Alberto Ferrari è stata una scelta presa all’ultimo quando i pezzi erano già fatti e finiti, tant’è che spesso suona come un orpello superfluo nell’insieme, ma la scelta di cantare in inglese non intralcia il ritmo tirato dell’album e fa scorrere velocemente questi 24 minuti di jam tra amici. E’ un bell’album come (quasi) tutti quelli delle band sopra citate, nulla di più, ma offre un’altra occasione per ricordare che siamo un paese di grandi produttori, compositori e strumentisti, capaci di unire diverse influenze dal mondo e dare vita a viaggi sonori intorno stimolanti come questo. Se proprio vogliamo che le prossime generazioni non si trasformino in una schiera di trapper sbiascicanti ma suonino una chitarra o una batteria, sarà sempre meglio dare più risalto possibile a musicisti come Adriano Viterbini e Fabio Rondanini ed i loro dischi, piuttosto che parlare solo del “male” che popola le classifiche confondendolo che tutto quello che succede di bello nelle sale prova sparse per tutto il paese. La musica italiana non si spegne.
 

70/100

(Stefano D. Ottavio)