BRAINBLOODVOLUME No. 16

 

RYLEY WALKER, The Lillywhite Sessions (Dead Oceans, 2018)

La Dave Matthews Band, conosciuta anche con la sigla di DMB, è una jam band statunitense, formata nel 1991 a Charlottesville, Virginia da Dave Matthews (voce e chitarra acustica), Leroi Moore (sassofono), Stefan Lessard (basso), Boyd Tinsley (violino elettrico), Carter Beauford (batteria), Peter Griesar (tastiere), che ha lasciato la band nel 1993.

Questo è un disco che difficilmente potrà ammettere compromessi: vi piacerà oppure no. Probabilmente poi si riconoscerà a prescindere il suo grandissimo valore artistico e persino “storico”, il grande stile e lo spessore di un musicista come Ryley Walker e il suo roster (qui il musicista di Chicago è accompagnato dal batterista Ryan Jewell e dal batterista Andrew Scott Young), che qui segnano una pagina importante della musica americana di questo anno 2018 con un disco che non è comprensivo di “originali” ma è bensì una rivisitazione completa di un disco che però non esiste.

La storia si portebbe ascrivere a quelle lì “mitiche” della storia del rock. Qui parliamo però di un gruppo, la Dave Matthews Band (capitanata – ovvio – da Dave John Matthews, cantautore, chitarrista e attore nato a Johannesburg ma naturalizzato statunitense), che i meno convenzionali potrebbero rifiutare per la sua natura e struttura istituzionale, persino popolare. Fatto sta comunque che “The Lillywhite Sessions”, che avrebbe potuto essere il migliore disco secondo la critica della DMB, non è mai uscito. Le canzoni furono registrate tra il 1999 e il 2000 con la produzione di Steve Lillywhite, ma ragioni di carattere “commerciale” costrinsero Dave Matthews a abbandonare il progetto e lavorare con Glen Ballard. I due scrissero a quattro mani il disco “Everyday” in 10 giorni e modificarono per sempre la storia della band. Il disco, invece, le Lillywhite Sessions, non fu mai completato e pubblicato (alcune tracce furono ri-registrate poi nel 2002 per l’album “Busted Stuff”) e negli anni divenne una specie di mito, pure causa la pubblicazione “clandestina” delle tracce online in un’epoca in cui il web non era ancora… il web.

Vale la pena domandarsi perché Ryley Walker, reduce dal successo di “Deafman Glance”, abbia voluto lanciarsi in una iniziativa di questo tipo. Abbiamo infatti accennato alla fama relativa oppure – meglio – controversa di Dave Matthews presso quello che potrebbe essere il pubblico e la platea di ascoltatori di Ryley. La verità è che, senza essere provocatorio, il nostro ha rilasciato una dichiarazione d’amore forte e spassionata verso Dave Matthews, che ha dichiarato essere il suo principale punto di riferimento sin da quando era un bambino e che la grande popolarità del musicista per lui non costituisca affatto una “diminutio” per quello che è il suo valore artistico.

Pensatela come vi pare al rigaurdo. Personalmente non sono un ascoltatore della DMB, ma come si fa a restare indifferenti davanti a questo disco? Chi lo sa come avrebbe suonato il disco originale e se con questo album, fosse mai stato portato a termine il progetto, la storia della Dave Matthews Band sarebbe poi stata differente. Ma le canzoni qui sono belle e arrangiate magnificamente e con originalità. L’accuratezza dei suoni, il cantato classico e asciutto di Ryley sono una sicurezza, laddove l’uso caratteristico e molto particolare dei fiati, la psichedelia “americana” standardizzata e accentuata da vibrazioni boogie elettrificate e vuoti d’aria, evocazioni che vanno da rimandi a Jackie-O Motherfucker a (persino) Jeff Mangum (qualcuno ha menzionato Akron/Family), sono tutte cose che segnano i diversi passaggi di questo album e gli danno quel senso di finitezza oppure di infinitezza, che finora era sfumato. Grazie.

LOUISE LANDES LEVI, BART DE PAEPE & PAUL LABRECQUE, “Colloidal Love” (Drukpa, 2018)

Il disco è la prima pubblicazione di una nuova label, la Drukpa, che negli intenti dovrebbe essere dedicata alla divulgazione di materiale di avanguardia sonora e world music sperimentale. In questa direzione, per la label di base in Belgio, non poteva esservi che migliore esordio che “Colloidal Love”, una collaborazione tra tre musicisti di prima scelta, se così si può dire, come Louise Landers Levi, Bart De Paese e Paul Labrecque. Conoscevo già De Paepe per i suoi precedenti lavori che ne fanno uno dei musicisti di avanguardia più interessanti sul panorama europeo e questa è stata la ragione che mi ha spinto a ascoltare questo lavoro, che poi è una unica sessione di circa mezz’ora registrata presso la abitazione della Levi ad Anversa.

“Colloidal Love” è un’opera cerebrale e allo stesso tempo una combinazione tra cervello e istinto. La sessione si può considerare per lo più improvvisata (le registrazioni sono opera di Labrecque), ma segue un percorso intellettuale ben definito e che prende movimento dall’interesse di tutti e tre i performer nel patrimonio culturale e spirituale del buddhismo tibetano, in particolare della figura del sedicesimo “karmapa” (in pratica l’illuminato, detto maccheronicamente, una specie di maestro, così come il Dalai Lama) Rangjung Rigpe Dorje, e si sforza di dimostrare in maniera compiuta e sicuramente funzionale, la connessione e le similitudini tra le tradizioni della musica indiana e quella del folk americano, la musica degli Appalachi e fino allo stesso primitivismo. Persino la musica blues. E questo specialmente per quello che riguarda l’utilizzo della strumentazione a corde.

Al centro della composizione la figura di Louise Landes Levi, che qui suona il sarangi (diretto il confronto tra il suono a corde del sarangi e quello del banjo di Paul Labrecque) e il flauto e adotta un uso sperimentale e alto della voce in quello che poi è più che un mantra vero e proprio, ma l’ingresso in una dimensione superiore teso e drammatico e che si amplia così come i petali di un mandala che dal cuore della sua anima poi si aprono verso l’infinito.

AXIS: SOVA, “Shampoo You” (Drag City, 2018)

Una delle realtà Made In US più interessanti di questo decennio nel campo della garage-rock psichedelia, gli AXIS: SOVA di Brett Sova escono con un nuovo LP su Drag City intitolato in maniera iconica “Shampoo You”. Sicuramente dissacrante, rispetto ai propositi tipicamente “punk” del concept proposto, il titolo a noi ascoltatori italiani più avveduti, potrà fare pensare a quella ironia tipica e ugualmente fuori dalle righe di Giorgio Gaber, però – piano con i paragoni – qui siamo su di una dimensione sonora completamente differente. Il trio del resto non ha particolari pretese sul piano intellettuale. Brett Sova, accompagnato da Tim Kaiser e Jeremy Freeze, è fautore di un rock psichedelico giocoso e camaleontico, pieno di riferimenti al rock and roll acido degli anni settanta e prossimo alle esperienze più irregolari della Elephant Six.

“Shampoo You” si sviluppa così in una successione di pezzi che suonano con una distorsione marcatamente seventies, un marchio di fabbrica accentuato dal suono delle tastiere (“Terminal Holiday”) e forme di composizione in micro-circuito, con quei riff che ritornano indietro come dei boomerang e che fanno “rimbalzare” l’ascoltatore (“Dodger”) con quel power-pop Elephant Six già richiamato e dipanato con schizofrenie atonali (“New Disguise”), giocosità post-punk (“Crystal Predictor”) e un accento glamour che ne accentua il caratterere vintage ed eccentrico allo stesso tempo. Tra comparsate Stones (“Stale Green”) e momenti più “seriosi” come la traccia finale “Same Person Twice”, l’opera si compie. Oppure no. Nel senso che il progetto resta quello che si autodefinisce come “group-mind in action” e se gli diamo quella definizione di “compiuto”, allora gli faremmo solo un torto.

GREG ASHLEY, “Fiction Is Non-Fiction” (Dusty Medical Records, 2018)

Greg Ashley è stato il frontman dei Gris Gris, una delle band che hanno rilanciato la garage psichedelia nello scorso decennio. Gli ascoltatori più avveduti riconosceranno del resto facilmente nel nome del gruppo il riferimento diretto a un’opera fondamentale della garage psichedelia di New Orleans, quel “Gris-Gris” che segnò il debutto discografico di Dr. John nel lontano 1968. Ingiustamente poco considerata come esperienza nel corso dello scorso decennio, probabilmente i Gris Gris di Greg Ashley furono degli anticipatori: se il gruppo canadese fosse uscito fuori solo cinque-sei anni più tardi, nel nostro continente avrebbe raccolto degli “osanna” sparsi, dando più di qualche ideale chilometro di distanza alle band del genere attualmente in giro sul panorama europeo e che segnano in effetti probabilmente la fine di quello che è stato definito come un vero e proprio revival e che adesso si avvia verso questa specie di “lungo addio”.

Dismesso il gruppo, comunque, Greg Ashley non ha appeso la chitarra al chiodo e ha cominciato a cacciare fuori dei dischi come solista che in Europa sono stati variamente diffusi dalla Trouble In Mind Records. Impossibile tra questi non menzionare un paio di lavori essenziali come “Another Generation Of Slaves” (2014) e “Pictures Of Saint Paul Street” del 2017. Senza menzionare il remake di Death Of A Ladies’ Man”di Leonard Cohen (1977) che ringiovanisce il disco originale in verità molto di più di quanto questo abbia mai suonato (non me ne vogliano gli storici ascoltatori di Leonard Cohen, ma se questi nacque già vecchio la colpa non è mia). Giusto per chiudere il cerchio dei suggerimenti, vale la pena chiaramente di riprendere i due album in studio dei Gris Gris, quello eponimo del 2004 e “For The Season”, tutti e due al tempo pubblicati su Birdman Records.

Ma veniamo a questo ultimo album del nostro eroe, uno dei songwriter più interessanti in circolazione del panorama americano, una specie di outsider e che qui molti hanno voluto accostare a cantautori come Hank Williams, Lee Hazlewood, Ray Davies oppure Syd Barrett e ovviamente Leonard Cohen. Ma, a parte che nel disco ci sono un paio di cover interessanti e molto particolari di artisti che non sono menzionati nell’elenco precedente (i Sonic Youth di “Schizofrenia” e i Briard di “Fuck The Army”), la verità è che questo disco di folk psichedelia, infetto di garage virulento e efficace, sicuramente tanto bluesy e allo stesso tempo “grezzo” come arrangiamenti, più che guardare a riferimenti alti, guarda al mondo e la realtà che ci circondano oggi. I toni sono quelli adottati da uno scrittore di canzoni urbano e che quando parla di quella richiamata “Schizofrenia”, ricorda più le visioni di Daniel Johnston che la psichedelia anni sessanta.

In effetti, a volere essere compiuti, “Fiction Is Non-Fiction” è una definizione intellettuale, che ci fa pensare alla beat-generation. Più che cantautori che sicuramente percorrevano delle strade in linea retta e si rifacevano a una cultura colta, Greg Ashley guarda alla strada e al quotidiano, egli stesso è la strada, come avrebbe detto Jack Kerouac e le visioni folli e subliminali allora a tratti diventano così concrete e “terra-terra” come quella scrittura Paul Westerberg di cui c’è sempre bisogno. Non è il suo migliore disco solista, senza dubbio, ma non sorprende il fatto si faccia ascoltare e riascoltare con grande piacere e cogliendo di volta in volta nuove sfumature nelle liriche.

LUKE HAINES, “I Sometimes Dream Of Glue” (Cherry Red, 2018)

Luke Haines (The Auteurs) è una delle figure più eccentriche nella scena musicale alternative da molti anni a questa parte, ma se questo è un dato di fatto generalmente riconosciuto, forse non tutti sarebbero concordi nel considerarlo anche come uno degli scrittori e compositori più geniali in circolazione. Ogni suo lavoro e in maniera specifica da dieci-quindici anni a questa parte, per lo più sviluppato attorno a un main-concept, costituisce un vero e proprio evento e un piccolo capolavoro, ricco di contenuti che muovendo da una visione, un personaggio, una storia, si traducono nelle liriche e negli arrangiamenti musicali con una efficacia che pochi hanno oggi nello sviluppare quelli che erano gli album a tema tipici della musica progressive degli anni settanta e che oggi non costituiscono più un elemento ricorrente. Ma il valore delle produzioni di Luke Haines va sicuramente molto oltre quelli che potrebbero considerarsi dei rimandi vintage, la sua opera è comunque concettuale, ma i contenuti sia musicali che a livello propriamente narrativo, divulgativo, persino documentaristico, sono attuali.

Questa volta Haines ci conduce per mano a “Glue Town”, un piccolo villaggio a circa cinque miglia da Lonrdra, appena fuori dalla Westway, nel Regno Unito. Voglio dire, un villaggio veramente molto piccolo: un insediamento rurale nato a seguito di una mutazione genetica verificatasi nella zona alla fine degli anni quaranta, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando un camion dei servizi speciali, contenente uno speciale liquido sperimentale tossico, destinato a essere riversato sulla Germania e l’intero continente, uscì fuori di strada e riversò il suo contenuto nel terreno circostante. Abitano solo cinquecento abitanti a Glue Town e questi sono minuscoli, alti al massimo due pollici e mezzo, sniffano la colla dei giornali, praticano orge rituali e incesti in una dimensione grottesca che rimanda a universi dickensiani, ma che allo stesso tempo potrebbero fare pensare anche a quelle visioni tipiche di certi incubi britannici e rievocazioni di paganesimo celtico fuoriuscite da “The Wicker Man” di Anthony Shaffer e Robin Hardy.

Peraltro anche le musiche delle quattordici canzoni del disco, ci calano in una dimensione psichedelica e allucinata e allo stesso tempo grottesca. Il pensiero vola diretto proprio alla colonna sonora di “The Wicker Man” di Paul Giovanni e Gary Carpenter in molte occasioni: la struttura dei pezzi e per lo più simile, si sviluppa su arpeggi di chitarra, organi e tastiere Canterbury e quella richiamata sfumatura pagana che poi è quella stessa che oggi trova in Julian Cope il suo “arcidruido” per eccellenza. Inevitabili filtrano tonalità apocalittiche, orrorifiche, grottesche e una certa ironia, tanto negli arrangiamenti, quanto soprattutto nei testi e dove ambientazioni medievali possono persino incontrarsi con la fantascienza di “The Midwich Cuckoos” di John Wyndham e in generale con tutto il cinema che ambientato in un piccolo centro rurale, ne mostra poi gli orrori che possono essere più o meno poi raccontati secondo espedienti metaforici più o meno surreali.

L’idea del disco in effetti è più o meno questa: Luke Haines aveva scritto una canzone anni fa (“Country Life”) e che si ispirava proprio a una dimensione di questo tipo. Proprio sviluppare questo concept, questa narrazione, ha portato a questa descrizione più ampia e che è diventata un vero e proprio set. Qualcuno scommette sul fatto che vi possa essere un seguito a questa serie di racconti tanto psichedelici quanto strani, bizzarri e a loro modo, spaventosi. Per saperlo non ci resta che aspettare, se e quando Haines e gli abitanti di Glue Town incroceranno di nuovo le loro strade.

KIKI PAU, “Hiisi” (Beyond Beyond Is Beyond Records, 2018)

Ritornano i Kiki Pau, gloriosa formazione rock psichedelica proveniente da Helsinki, Finlandia e fondata nel 2006 e già nel roster della mitica Beyond Beyond Is Beyond Records. Registrato durante le estati del 2016 e del 2017, il disco del gruppo composto da Henrik Domingo, Pauli Saarikivi, Olli Juvonen, Aleksi Gustafsson e che qui si avvale della collaborazione aggiunta alle tastiere di Janne Lastumaki, è stato realizzato con la partnership di Kia Sofia Rhyanen e mixato da Gustav Ejstes dei Dungen e Joel Modin. Particolarmente atteso, dopo l’exploit del bellissimo “Pines” (BBIB, 2013), “Hiisi” si ispira alla magia della cultura nordica e finlandese in articolare, rimandando a antichi culti e mitologie di ambientazione rurale, quei boschetti sacri popolati da gnomi e spiritelli e che poi furono variamente raccontati, secondo come rappresentato nelle note di accompagnamento della pubblicazione, come entità maligne in contrasto con le visioni religiose del mondo cattolico.

Uno scontro con il paganesimo che poi ha visto in via ufficiale prevalere il cattolicesimo, ma che non ha cancellato nell’immaginario quella cultura pagana che poi in effetti aveva dei contenuti spirituali intrisi di misticismo e che come ritualità psichedeliche vengono qui evocate in un album che poi si sviluppa propriamente attorno alla traccia che dà il nome al disco (“Hiisi”) e divisa idealmente in due parti. Una armoniosa combinazione tra psichedelia meditativa orientale e attitudine tipicamente nord-europee: so che per molti questo confronto potrebbe apparire “blasfemo”, ma alcune sensazioni mi hanno ricordato molto gli Afterhours di “Bye Bye Bombay” e devo dire che la cosa non mi è affatto dispiaciuta. Anzi.

Spicca poi la richiamata componente naturalista, associata spesso come noto al paganesimo e esplicata nella prima traccia, “Leaves”, costruita su arpeggi nello stile Byrds e sfumature Trad Gras och Stenar e una certa armoniosità che ricorda il David Gilmour più armonico; temi ripresi con maggiore complessità in “Seeds” e negli impazzimenti schizofrenici di “Sarkofagi” (in particolare nella “long version”, che ancora rimanda a alcuni rumorismi pinkfloydiani).

Ancora una volta la Beyond Beyond fa centro per quanto mi riguarda e si propone con e diversamente dalla Rocket Rec. come la realtà più interessante nel panorama psichedelico contemporaneo: ogni loro uscita è una vera delizia per le nostre orecchie. Disco imperdibile.

THROW DOWN BONES, “Two” (Fuzz Club Records, 2018)

Miracolo della meccanica e di quello che, con delle pretese quasi “alchemiche” e rivisitate in una società sempre più dominata dal mondo dell’elettronica, potremmo definire come processo di sintesi, il secondo capitolo della avventura Throw Down Bones, inaugurata nel 2015, si attesta su forme di minimalismo che sono considerazioni e proposito esplicato già dalla denominazione dell’album. Il disco si intitola semplicemente “Two”, una specie di codice, il numero di serie di un grosso macchinario, quelle macchine a controllo numerico alle quali lavorava mio padre quando ero piccolo e che hanno costituito nel mio immaginario una specie di grande sogno: era il sogno di un mondo operaio che non rappresenta una visione didascalica e ortodossa del pensiero socialista, né vi sono inutili nostalgie che si perdono poi in una iconografia parodistica, come volere raccontare di un mondo antico ideale.

Vi era invece l’incontro tra quella immagine di Charlie Chaplin, che costituisce l’uomo alle prese con la catena di montaggio in “Modern Times”, homo faber e allo stesso tempo alle prese con un sistema apparentemente troppo grande da potere essere contrastato, così come poi proverà sul grande schermo Gian Maria Volonté molti anni dopo, quando diretto da Elio Petri proverà a andare in paradiso e forse ci riuscirà, forse no. Qualcuno voleva lavorare in fabbrica con suo padre, perché si sentiva solo oppure semplicemente perché voleva essere come lui e perché voleva stare con lui, perché pensava che lavorare in fabbrica significasse essere parte di qualche cosa e stare assieme agli altri e non restare mai solo. E allora ecco che le “macchine”, come quelli che venivano definiti come “sistemi di produzione”, qui sembra quasi di citare Franco Battiato, acquistano un senso che va oltre quello delle rappresentazioni fantascientifiche e in cui queste sono molto spesso in contrasto con i loro creatori, come l’uomo contro una divinità, e divengono invece un tramite e una forma di collante tra le persone, togliendo così ogni senso a quel “luddismo” che oggi sembrerebbe rivivere una specie di revival e che si perde in forme di negazionismo che poi giustificano proprio quei “poteri forti” che tante volte vengono chiamati in causa.

Allo stesso modo questo disco, forse ripetitivo, diciamolo, perché è specificamente ripetitivo in quella proposizione di sonorità industrial e EBM che proprio loro hanno voluto descrivere come “musica da ballo” e che si spinge oltre i circuiti dentro i quali veniva costruita quella torre di babele drone del primo LP, vuole proprio attraverso quelle ossessioni che sono citazione di Aphex Twin, pattern ripresi dal sound anni ottanta di New Order come da esperienze “indie” come i Liars oppure più mainstream come i Chemical Brothers, compiere questa missione unificatrice. I propositi ideali si rifanno a quella cultura “rave”, che il settimanale “Robinson” ha voluto celebrare come revival della cultura hippie, riconsegnando a questo mondo trance, acido, il giusto spazio nella nostra cultura contemporanea a livello alternative. Più famosi nel Regno Unito, alfieri della Fuzz Club Records, che nel nostro paese (sic), Francesco Vanni e Dave Cocks sono per molti nel genere post-industrial “psichedelico”, se così si vuol dire, un punto di riferimento. Piaccia oppure no, con tutti i suoi limiti già richiamati, in fondo “Two” trova proprio nel concept ossessivo e nella ripetizione pedissequa dei suoni, la sua ragione di esistere: come volere fare entrare bene dentro la testa di qualcuno (cioè: gli ascoltatori) una idea. L’idea di sé e dell’uomo che usa le macchine come uno strumento e appendice del proprio corpo, dove non esiste artificio, perché ogni cosa che viene creata, non nasce dal nulla ma è idea e funzione di riciclo, espressione di vita e del suo carattere mutevole come multiforme. “Cuore e acciaio”.