“The Gloaming”, l’intervista a Stefano Solventi

Stefano Solventi, collega su Sentireascoltare e soprattutto penna ricercatissima sull’indimenticato Mucchio Selvaggio (chi non rammenta, quando il Mucchio era settimanale, la sua rubrica “Loser” dedicata ai dischi belli ma perdenti?), si è avventurato in un’opera complessa e fascinosa: raccontare gli ultimi 25 anni unificando la parabola dei Radiohead e del rock in generale, e domandarsi del perché il rock non sia più il linguaggio cardine per le nuove generazioni. Il risultato è The Gloaming – I Radiohead e il crepuscolo del rock” (Odoya, 2018), e abbiamo dovuto fare a lui qualche domanda perché il libro è uno dei primi tentativi di spiegare le motivazioni del declino di un linguaggio, quello del rock, che sarà certamente un argomento che alimenterà discussioni in futuro.

La caratteristica che più mi ha colpito di “The Gloaming” è il raccontare questi ultimi 25 anni in un modo che tenta di essere esaustivo da un punto di vista musicale ma soprattutto anche sociologico e politico. L’idea è stata da subito questa o le parti “sociali” sono state un compendio che si è valutato necessario strada facendo? E se erano previste fin da subito, non ti ha spaventato inizialmente questa esigenza di “completezza”?

Non solo era prevista, ma era in un certo senso la condizione necessaria. Penso che raccontare il rock significhi raccontare tutto quello di cui è intriso. Aggiungo: di cui è inevitabilmente intriso. Perciò l’idea per “The Gloaming” era ricostruire il percorso fatto dal rock negli ultimi 25 anni e quindi anche da tutto il resto, da tutti noi. L’obiettivo era proprio questo, parlare di rock e Radiohead, di innovazioni tecnologiche, di avvenimenti politici ed economici, di catastrofi e scoperte, di come tutto questo abbia stravolto il nostro modo di pensare il mondo, di pensarci nel mondo, di pensarci come individui e – di conseguenza – come ascoltatori. Naturalmente sapevo che si trattava di un’impresa non da poco e ne ero intimorito. Avevo ben chiaro che si trattava di un obiettivo presuntuoso, però – mi dicevo – in fondo ogni libro è proprio questo, un atto di presunzione. Così mi sono concesso una scelta abbastanza rock’n’roll, ovvero me ne sono fregato dei miei timori. Ogni tanto ci vuole.

I Radiohead, più che i protagonisti, paiono più che altro un soggetto “primus inter pares” nel tuo libro… Da radioheadiano di ferro sono d’accordo nel considerarli imprescindibili e sopra tutti, e mi chiedo piuttosto: la loro grandezza non rischia di essere una storia che prescinde ed è indipendente dalla diminuzione di importanza del rock a cui abbiamo assistito negli ultimi anni?

Capisco il tuo punto di vista e concordo. I Radiohead sono senz’altro una band il cui orizzonte poetico, la cui tavolozza di segni e gli ambiti espressivi costituiscono per così dire un ecosistema che vale di per sé. Anzi, forse questa è una considerazione che vale soprattutto per loro, visto come hanno tracciato fin da subito un perimetro solido attorno a se stessi, mantenendo l’identica formazione per trent’anni e senza mai ricorrere nei loro dischi a featuring per differenziare la proposta o aumentarne l’appeal. Tuttavia, li ho sempre considerati anche una band emblematica rispetto alla “crisi” del rock dell’ultimo quarto di secolo, proprio per come ne hanno messo in discussione gli aspetti formali e le prassi della creazione e distribuzione. Senza contare che nella loro poetica la crisi del fattore umano nell’epoca del post-umano è centrale, se non dagli esordi almeno da “The Bends” in avanti. Insomma, per l’idea di libro che avevo in mente mi sono sembrati una chiave narrativa perfetta. Scrivendolo, si sono rivelati più che perfetti: direi illuminanti e inevitabili.

Tra l’analisi puntuale delle canzoni, le evoluzioni tecnologiche e gli avvenimenti storico-politico, il mood che forse più ho apprezzato è quello, in alcune parti, di racconto privato, non diario ma in ogni caso che descrive la musica come imprescindibile sfondo di ogni nostra umana vicissitudine, e in questo caso di soundtrack della tua vita. E’ un mood che hai cercato di limitare o non ti sei semplicemente posto degli steccati?

Ci sono senz’altro elementi di memoir, ed è una scelta precisa. Non era mia intenzione scrivere un saggio analitico, tecnico, anche perché, lo ammetto, non sarebbe stato alla mia portata. In ogni caso, anche se capisco che potrà somigliare un po’ alla favola della volpe e l’uva, non era quella l’intenzione. La verità è che non ho voluto scrivere dal punto di vista del critico, ma da quello di un appassionato di musica rock che ha passato gli ultimi 25 anni a diventare adulto, lasciando che il rock recitasse un ruolo importante in questo processo di maturazione (o invecchiamento, per dirla chiara). Come scrivo nel capitolo introduttivo, non amo granché il concetto di critica applicato al rock. Ovvero, mi capita di leggere saggi molto tecnici e di trarne giovamento, certo, ma credo che una storia del rock non possa prescindere dalla modalità del racconto, della testimonianza. Il ruolo del vissuto personale è centrale nel fornire senso al rock: vedi ad esempio “Le biciclette bianche” di Joe Boyd o il recente “1971 L’anno d’oro del rock” di David Hepworth, oppure “Apathy for the devil” di Nick Kent e “Stoned” di Andrew Loog Oldham, solo per citare alcuni titoli. Persino i grandi Greil Marcus e Simon Reynolds non si tirano indietro e nelle loro ricostruzioni/speculazioni critiche lasciano entrare i propri ricordi, le sensazioni vissute in tempo reale. Non voglio minimamente paragonarmi a costoro, ma credo che lasciarsi coinvolgere in prima persona renda vera e attendibile la narrazione del rock, perché è tipico del rock coinvolgerti, precipitare nella tua vita e cambiare le cose.

Ti è soggiunta l’idea di raggiungere Thom o altri della band per una intervista o inserto dedicato? Non l’hai fatto perché non utile per la prospettiva del libro oppure per difficoltà concrete oppure perché?

Mi è passato vagamente per la testa, lo ammetto, ma alla fine non ci ho neppure provato. Per un insieme di motivi: certo ha pesato la consapevolezza di quanto comunque sarebbe stato difficoltoso ottenere udienza, oltre alla mia scarsa (eufemismo) padronanza dell’inglese. Soprattutto però c’è il fatto che quando scrivo sono un solitario, mi chiudo in una bolla con le mie teorie, le elucubrazioni, non mi piacciono molto insomma le interferenze esterne. Porto avanti le mie idee fino all’ultima riga, poi cerco di rivedere tutto da fuori e correggere gli (inevitabili) avvitamenti ombelicali. Quello che sostengo in “The Gloaming” è una mia interpretazione, una tra quelle possibili. Probabile che Yorke e soci non sarebbero d’accordo con nulla o quasi rispetto a quanto scrivo su di loro. Anche all’epoca del saggio su PJ Harvey elaborai una particolare teoria, una sorta di plot che mi consentì di raccontare una storia vera e propria. Il punto è proprio questo: in entrambi i casi mi interessava scriverne da ascoltatore che ha metabolizzato la loro musica in un contesto specifico, e che quindi da questo punto di vista intendeva raccontarli. Un punto di vista che fa perno su tanto rock ma anche sul cinema, sulla letteratura, sul rapporto coi media. I Radiohead, ripeto, per me hanno rappresentato soprattutto una chiave narrativa, pur essendo ovviamente i protagonisti di “The Gloaming”. Oggi, a libro chiuso e uscito, potrebbe essere interessante confrontarmi con i cinque oxoniensi, anche a costo di sentirmi dire “amico, hai scritto un sacco di cazzate”. Non accadrà mai, ma se accadesse penso che sarebbe molto divertente.

Sostengo, con altri, che più che gli avvenimenti politici sono i trend delle droghe che cambiano le mode musicali in ragione di causa-effetto… non può essere che dopo quest’era attuale di lexotan-music, o meglio lexotan-pop, altre droghe possano riportare in auge stilemi più vicini al rock che al pop?

Si tratta di un’ipotesi interessante perché, certo, i trend delle droghe sono strettamente correlati alle vicende del pop-rock. Quanto al sopraggiungere di una nuova stagione psichedelica, è uno scenario di cui si parla da un po’ di tempo, però a dire il vero più in zona gaming o persino nell’ambiente della narrativa, comics compresi. Credo però che in ogni caso per il rock sarà dura tornare a recitare un ruolo centrale rispetto all’immaginario collettivo, anche perché alla base del sistema che rende possibili e detta i trend delle droghe (istituzionali o illegali) c’è un meccanismo industriale simile a quello che governa il mondo della musica, un meccanismo che mira al controllo sempre più puntuale del processo creativo/produttivo e degli esiti finali, grazie alle capacità analitiche e previsionali rese possibili dalle tecnologie e metodologie basate sui big data. Con questa enfasi sulla pianificazione della canzone-prodotto in chiave playlist (radiofonica o streaming), il rock con la sua fisiologica quota di imprevedibilità, di caos più o meno controllato, di forzatura delle strutture in chiave espressiva, è tagliato fuori in partenza dai giri che contano. Certo, esiste un rock che se la cava a livello di mainstream (vedi i Foo Fighters o gli ultimi Red Hot Chili Peppers), ma somiglia sempre più a un simulacro, è rock pensato per chi del rock può fare benissimo a meno. No, in questo frangente storico non vedo margini per un ritorno alla centralità che ricopriva un tempo, anche se il rock rimane e resterà come scena marginale in grado di produrre buoni e persino ottimi dischi, come ben sappiamo.

Dato che in precedenza, se non erro, venivi da due romanzi, il ritorno ad un libro-saggio musicale (come avevi già fatto per PJ Harvey) è stata un’esigenza, una casualità o un normale alternarsi di linguaggi espressivi?

No, non è stata una casualità. Se “La meccanica delle ombre” nel 2015 mi travolse all’improvviso, fu un romanzo non pianificato e in un certo senso – seppure in un senso molto lato – autobiografico, due anni più tardi “Nastri” è nato invece sulla scorta di riflessioni analoghe a quelle che mi hanno portato a “The Gloaming”. Potrei dire, forzando un po’ la mano, che Nastri è il sequel fiction di The Gloaming. O più correttamente, visti i tempi di uscita, che “The Gloaming” è il prequel non-fiction di “Nastri”. Con “Nastri” ho tentato di rispondere alla domanda: e adesso che siamo finiti nell’epoca dei big data e della post-verità, adesso che il rock è praticamente uscito dai radar, cosa potrebbe succedere? Per farlo, ho pensato di ricorrere alla cassetta degli attrezzi messa a disposizione dalla fantascienza distopica, immaginando un’Europa del 2052 in cui il rock, per un complesso insieme di motivi, è stato messo al bando. Con “The Gloaming” ho invece sentito il bisogno di ripercorrere la strada che ci ha portati fino al presente partendo dagli anni Novanta, quelli dell’ultima grande stagione del rock, e mi è sembrato naturale farlo con i modi e le forme del saggio e del memoir. Questi ultimi due lavori sono insomma legati a doppio filo. In entrambi il tema centrale è quello del controllo, un tema che tra le altre cose affiora spesso nelle canzoni dei Radiohead.

E in definitiva, visto che credo che anche l’editoria passi un periodo similare alla musica, in cui l’iper-offerta svilisce anche le opere più buone per inevitabile dispersione, cosa ti aspetti di ritorno da “The Gloaming”?

Ottimisticamente mi aspetto che possa rappresentare una base di discussione, magari perché ne vengano confutate o superate le conclusioni, comunque vorrei che tenesse vivo l’interesse per il destino del rock e su cosa significhi realmente il suo crepuscolo in termini di ricadute culturali, sociali, politiche. Perché, al di là del rock e del mio amore per questa forma espressiva – di cui il genere umano ha fatto a meno per secoli e alla cui eventuale scomparsa può benissimo sopravvivere -, qui in ballo c’è un modello di vita, un’idea di società, il modo di concepire uno straccio di futuro e uno straccio di noi stessi in quel futuro. Realisticamente però so bene che, come dici tu, escono troppi libri, e che di questo eccesso di offerta anche The Gloaming fa parte. Quindi, è dura pensare che possa farsi luce, a prescindere dai suoi effettivi meriti. Intanto mi faccio bastare la soddisfazione di portarlo in giro, di presentarlo nei festival, nei club, nelle associazioni. Vedere l’interesse, la curiosità nei volti di chi ascolta, nelle loro domande, o anche soltanto incontrare persone mosse dalle tue stesse passioni e preoccupazioni, beh, è qualcosa che fa bene all’anima. Viene da sperare con un pizzico di convinzione in più nel domani, viene da credere che non tutto sia compromesso. Ok, lo so che può sembrare un’affermazione esagerata. Anzi, lo è senz’altro. Capisci perché più sopra dicevo che un libro è sempre un atto di presunzione?

Le prossime presentazioni di “The Gloaming” saranno:
– sabato 15 dicembre 2018, ore 18: Circo della Farfalla di Francavilla Fontana Brindisi
– sabato 19 gennaio 2019 a Chiusi (SI);
– domenica 27 gennaio 2019, ore 19, Diagonal Loft Club, Forlì.

(Paolo Bardelli)