[#tbt] Ci interessa un sacco di Chuck Mosley

Quando se ne andò, l’anno scorso il 9 novembre, fu un giorno come tanti altri. Qualcuno lo ricordò, ma non in tanti e nemmeno noi di Kalporz: credo di essere tra i pochi amanti dei Faith No More qui nella combriccola kalporziana, e questo mi rattrista, posto che qualche volta ho la lucida impressione che la band di San Francisco sia stata la vera traghettatrice tra gli ’80 e i ’90 musicali, tra le istanze edonistiche ’80 che si materializzavano nel funk ma che andavano via via facendosi più ibride e soprattutto più cattive, prendendo linfa vitale da linguaggi impattanti come il metal e il rap. Prima del grunge, obviously, cioé prima che tutta la faccenda si facesse dannatamente più personale e problematica.

Chuck Mosley – primo cantante dei Faith No More (o, meglio, primo ad incidere un loro album) – non fu particolarmente fortunato. Sostituì una serie di cantanti che non andavano bene, tra cui Courtney Love (sì, proprio lei, incredibile) e con lui i Faith No More pubblicarono due album che avevano quella hit nota come “We Care A Lot” come trait-d’union, canzone presente in entrambi gli lp perché evidentemente la Slash (la major che pubblicò il secondo “Introduce Yourself” nel 1987) aveva capito che le potenzialità della song dovevano essere riproposte (con un testo più a fuoco) ad un pubblico più ampio che il primo album (l’omonimo “We Care a Lot”, 1985, stampato dalla indipendente Mordam Records) non aveva raggiunto. E quando si pensa a Chuck Mosley viene in mente soprattutto quella canzone, è naturale.

Ma non dovrebbe essere la sola: seppure la leggenda vuole che Chuck registrò entrambi gli album con il raffreddore, ci sono canzoni in cui Mosley sembra davvero creare uno stile di cantato unico tendente al flow del rap (ammise di aver ascoltato molti Run-DMC) ma con la foga tipica del punk e, in alcuni punti, la linearità del rock. Un esempio su tutti? La magnifica “Why Do You Bother” in cui sono già presenti tutti i linguaggi dei FNM: le atmosfere cinematiche disturbanti (un marchio di fabbrica dei FNM, merito del tastierista Roddy Bottum), il drumming incalzante, il basso metallico su cui inserire chitarre mai indulgenti. Mike Patton ha avuto un po’ “la pappa pronta” perché è innegabile che abbia attinto molto dall’esperienza di Chuck Mosley. Migliorandola, a detta di molti, ma questo è un altro discorso.

Quello che è strano è che di Chuck Mosley poi si persero le tracce dopo l’allontanamento dai FNM, dovuto più che altro alle sue dipendenze dalla droga e a un non allineamento anche musicale (la goccia che fece traboccare il vaso fu la sua proposta di usare solo chitarre acustiche) per cui è interessante riscoprire il lavoro successivo del cantante, che non è poi molto. Con la storica hardcore punk band Bad Brains infatti non incise nulla (1990-1992), mentre invece pubblicò due album con i Cement (Mosley, il chitarrista Sean Maytum, il bassista Senon Williams, e il batterista Doug Duffy), un quartetto eclettico che tirava anche lui dalle parti del metalfunk ma ovviamente (era il ’93 e il ’94) con i tributi inevitabili al Seattle-sound ma soprattutto al quel calderone di generi, definito con comodità crossover, che marcava lo scavallamento dei decenni.

Il primo album dei Cement(1993), omonimo, partiva con delle risate per continuare in tipico style Jane’s Addiction (“Living Sound Delay”), mentre “Shout” virava più curiosamente dalle parti dei Mr. Bungle, creando così un corto circuito singolare (quando Mike Patton venne chiamato a sostituire Mosley era appunto il cantante dei Mr. Bungle). E non mancavano gli episodi hardcore della durata di poche decine di secondi (“Four” e “Six”), svisate glam (“Prison Love”), riff à la RATM (“Take It Easy”).

Non passò neanche un anno e i Cement pubblicarono il secondo album, “The Man With the Action Hair” (1994), come il primo su etichetta Dutch East India Trading. Qui la band di Mosley si concentrò maggiormente sul funkrock stile Red Hot Chili Peppers: si affievolivano le asprezze hardcore (solo nelle conclusive “Magic Number” e “Power And the Magic”) e si introducevano elementi puramente grunge, come nel singolo “Pile Driver” che ascoltato oggi pare essere una outtake degli Stone Temple Pilots:

Ma il 1994 fu anche l’anno degli unplugged e della nuova via acustica che stava prendendo certo tipo di rock, per cui anche i Cement – pur mantenendo un livello molto alto di energia – si lasciarono andare a qualche ballads (“Life On the Sun”, “Sleep”, “King Arthur”). Senza snaturarsi, e facendo capire che avrebbero continuato con una linea sempre più definita.

Ma non ce ne fu il tempo: Mosley si fece male in un maledetto incidente d’auto prima dell’inizio del tour di “The Man With the Action Hair”, e i Cement andarono a rotoli. E anche la stessa carriera di Chuck, che si ritirò a vita privata facendo il cuoco, crescendo le figlie e lottando fortemente con un mal di schiena cronico derivato dall’incidente e dal fatto che non si curò come avrebbe dovuto (in molte interviste Chuck critica fortemente il sistema medico-assicurativo statunitense).
Ritornò negli ultimi anni, con qualche comparsata in sparuti live dei riformati Faith No More e progetti del tutto estemporanei senza un filo conduttore (un’autobiografia non conclusa, un’apparizione in un film, un tour solista nel 2016). Si arrabattava, ecco tutto, perché il pubblico lo aveva – ingiustamente – abbandonato e dimenticato.

Perché ho raccontato la sua storia? Perché quando ho letto la classifica dei 200 album degli anni ’80 di Pitchfork e ho riscontrato l’assenza di un qualsivoglia album dei Faith No More, ho pensato che il mondo stesse perseverando in questa ingiustizia. Ma voi, ora che vi ho raccontato questa storia, quando leggerete quella classifica e vedrete tra i primi 10 album Sade e Janet Jackson, avrete tutti gli strumenti per non crederci e per comprendere che un album come “We Care A Lot” (o, meglio, “The Real Thing”, ma questa è un’altra storia) abbia significato molto più che i sospiri di Sade o gli urletti della sorella di Michael Jackson.

(Paolo Bardelli)

P.S. Questo articolo è dedicato a Davide Deiv Agazzi, ex scribacchino kalporziano e attualmente vivace e preparatissimo contributor di Rumore e super-dj a Controradio, perché è tra i pochi kalporziani con cui ho potuto condividere la passione per i Faith No More. Ora tocca a lui fare una retrospettiva… amanti dei Faith No More di tutto il mondo uniamoci!