KURT VILE, “Bottle It In” (Matador Records, 2018)

“Venghino siori, venghino, nel grande e caotico circo del Vile! Più gente entra, più bestie si vedono!”. Questo è lo spirito con cui va affrontato il settimo lavoro di Kurt Vile, “Bottle it in”, il trentottenne cantautore di Philadelphia che torna, a distanza di tre anni, con un album onirico e un po’ visionario, ricco di testi surreali ed irriverenti. Allontanandosi dall’orientamento alt-country, vira a favore del sacro paradigma batteria, basso e chitarra acustica, come a voler mitigare il profondo a favore del prosaico elevando l’irrilevante al pregevole. E’ un maestro nell’esprimere le sue lamentele da sfigato un po’insolente, ma dall’invidiabile dignità, ampliando il suo arsenale di ironia fatta di weird jokes e strani giochi di parole.
L’highlight dell’album “One Trick Ponies” è sofisticato e popolare, qui la voce di country-soul della batterista Stella Mozgawa, presa in prestito dalle Warpaint, catalizza tutta l’attenzione cantando “Loved you all a long, long time” su un sottofondo di chitarre scintillanti. C’è “Hysteria”, che ha un debito lirico con “La La Love You” dei Pixies dove Kurt “beve un frullato dei sogni e all’improvviso si sente ansimante”, mugugnando parole disinteressate alla vita con fare malinconico. Ma in fondo Vile è così, si trasforma ad ogni pezzo restando sempre fedele a se stesso, prendiamo “Check Baby”, stomp ruvido caratterizzato da una traccia synth dominante e chitarre pesanti, che ti culla grazie al suo runtime, usando strani e bizzarri giri di parole come “what a whale of a pickle” o “we run like chickens from the dickens”; o i lunghi assoli di “Skinny Mini”, dieci minuti di improvvisazione jazzistica con grandi accordi fuzz; o come “Cold Was the Wind”, che spinge Vile nel territorio di Springsteen e di Cohen, dove gli arpeggi rimandano ad immagini da sogno e atmosfere da grandi spazi aperti. Nonostante ci siano parti nel disco che non entusiasmano, come “Come Again” e la cover di Charlie Rich “Rollin With the Flow”, il bello di questo antitetico personaggio sta proprio nel fatto che non ti lascia il tempo di soffermartici, perché ti spiazza subito con qualcosa di inaspettato. È difficile capire fino in fondo la psiche oscura e piena di contraddizioni di Vile, tuttavia, è in grado di produrre un album che possa rivendicare l’autenticità come sua qualità predominante. Alcuni cantautori cercano la saggezza nella loro assenza di obiettivi, riflettendo su ciò che avrebbero potuto fare meglio, cercando di individuare cosa è andato storto. Ma questo non vale per Kurt Vile, lui ci sguazza nella distopia musicale, senza scusarsi nè porsi troppe domande. Attraverso le sue liriche, le crisi si trasformano in piccole preoccupazioni e i malesseri in leggere seccature: “I was on the ground but looking straight into the sun, but the sun went down and I couldn’t find another one, for a while” canta in “Bassackwards”, psichedelico e deformato pezzo rock-folk, che ti mette alla prova per dieci minuti: un lungo sospiro di fronte al terrore esistenziale. Esilarante invece “Loading Zones”, sia liricamente che dal punto di vista sonoro, una divertente e assurda serie di parole che ruotano intorno al tema del pagamento del parcheggio. Il testo anti-tecnologia di “Mutinies” invece, colpisce per lo sguardo gentile e introspettivo rivolto verso se stessi, un’unione ben riuscita tra l’arrangiamento morbido, che avvolge come pioggia liriche semplici ma argute: “I think things were way easier with a regular telephone-ment”.
Ha un finale bittersweet questo settimo album, in bilico tra un’ansiosa sopravvivenza e un distaccato fatalismo, un continuo paradosso in cui la mente alla deriva di Vile si orienta con la bussola emotiva. Eppure, nonostante tutte le incongruenze a cui ci ha abituati, la sua intenzione resta quella di amplificare la spaccatura tra musica e testi, non gli importa dello squilibrio che crea – quindi, perché mai dovremmo farlo noi?

68/100

(Simona D’Angelo)