I 30 anni di “Daydream Nation” dei Sonic Youth


Da molti considerato il miglior disco di una delle band più influenti del secolo scorso, “Daydream Nation” celebra il 18 ottobre 2018 il suo trentesimo anniversario. Il quinto album dei Sonic Youth, pubblicato da Enigma (ultima uscita indipendente prima del passaggio su major), ha segnato due generazioni con un sound inconfondibile e ancora maledettamente attuale.
Il disco è registrato da Thurston Moore, Lee Ranaldo, Kim Gordon e Steve Shelley nel giro di un mese nell’estate del 1988 al Greene St. Recording di SoHo, scelto perché è lo studio più comodo da raggiungere dalle loro abitazioni di Lower Manhattan. Al loro fianco c’è il titolare dello studio, un personaggio come Nick Sansano. Il produttore e sound engineer è famoso per il suo lavoro al fianco di leggende dell’hip hop (Public Enemy, Ice Cube, Rob Base, Run DMC) e non sa nemmeno chi siano questi Sonic Youth che con album come “Evil” e “Sister” hanno iniziato a cambiare per sempre la storia della musica indipendente.
Eppure il disco dalle jam di instancabili Ranaldo e Moore trova una sintesi clamorosa tra le scostanti anime del quartetto newyorchese: la visceralità selvaggia del punk, l’approccio “artsy” e radical della scuola post-punk americana e un’insaziabile ricerca tipica delle avanguardie noise.
Trovare le parole per descriverlo, trent’anni dopo, è ancora difficile, ma ci abbiamo provato, anche perché senza questo disco molti di noi non sarebbero qui a scrivere di musica.

La prima volta che ho fatto play su questo disco (non avevo nemmeno quattordici anni) e il live celebrativo del 2007, resteranno per sempre due dei momenti fondamentali della mia esistenza.
I Sonic Youth con “Daydream Nation” hanno ridato definitivamente linfa alla scuola dei Velvet Underground destrutturandola e scomponendola in un viaggio senza respiro nella New York decadente dell’America reaganiana, tra furore post-punk, allucinazioni noise e cervellotiche digressioni avant, in un quadro di riferimenti che vanno dalla letteratura sci-fi di Gibson alla Los Angeles torbida e oscura di Ellroy.
La nazione dei sogni dei Sonic Youth, tra canzoni da cantare a squarciagola, chitarre frastornanti che annichiliscono e paesaggi eterei che portano in altre dimensioni immagina e trova un incredibile punto d’incontro tra due rette che nessuno è mai riuscito come loro ad avvicinare: il punk e la musica contemporanea.

(Piero Merola)


“Daydream Nation” può essere considerato tra i dischi più significativi dell’underground americano degli anni ottanta : è l’apoteosi della libertà creativa al servizio delle chitarre e di un suono deflagrante, che, negli album a seguire, esplode in una forma canzone più pop (non per questo meno interessante, anzi) : nel 1988 i Sonic Youth abbandonano la SST Records, tra le etichette fondanti e fondamentali della scena hardcore punk (ma non solo) a stelle e strisce. Escono, quindi, da un mo (n)do di fare discografia (quello della SST) che non sentono più proprio e firmano un contratto con la Blat First (distribuzione Enigma Records) di Paul Smith posticipando di due anni il passaggio a una major, la Geffen che nel 1990 pubblica “Goo”.
Si conclude quindi un percorso, quello incominciato con Bad Moon Rising (il disco di transizione dalla no wave al noise rock sperimentale ) nel 1985 : prima che arrivino gli anni novanta la band newyorkese realizza, per l’ultima volta, un lavoro di pensato e suonato come flusso sonoro di idee e suoni. Con una potenza espressiva mai raggiunta prima e forse dopo.
(Monica Mazzoli)

Se esiste un disco che costituisce un importante spartiacque nella carriera dei Sonic Youth, occorre puntare il dito su “Daydream Nation”. Un album importante (venne pubblicato come doppio) che ha tanti significati non solo per la band, ma in generale per l’underground musicale statunitense. Pubblicato nel 1988 dalla Enigma Records, il quinto disco in studio dei Sonic Youth è anche il loro ultimo prima di entrare nell’universo delle major, che proprio sul finire del decennio iniziavano ad accorgersi di determinate scene artistiche seminali. “Daydream Nation” è stato senz’altro anche un disco seminale per tutta la generazione di musicisti appena successiva, quella che ha caratterizzato almeno la prima metà dei ’90. In 70 minuti tra singoli memorabili e lunghe suite i Sonic Youth hanno disegnato il loro suono per gli anni a seguire.

(Francesco Melis)

Nel 1986 Robert Palmer, il compianto critico del New York Times, affermò che “i Sonic Youth stavano componendo la musica per chitarra più originale dai tempi di Jimi Hendrix”.
A distanza di 30 anni dalla pubblicazione del loro album più conosciuto e più rappresentativo (difficilissimo decretarne il più bello), Il “Daydream Nation” celebrato in questo speciale, la frase di Palmer non suona solo decisamente profetica ma perfino limitativa.
È vero, i Sonic Youth hanno modificato per sempre il modo in cui la sei corde poteva modellare il suono di un brano “rock”, portandolo su universi sconosciuti, ma la loro eredità (diciamo pure leggenda) va ben oltre quest’impresa.
Negli anni ’80 esisteva un intero mondo, perfettamente incastonato nello storico libro “Our Band Could Be Your Life” di Michael Azzerad, fatto da decine di piccole band, etichette e radio indipendenti, che con il giusto mix di audacia, ingenuità, talento e follia hanno dato vita a un decennio che tuttora viene visto dagli appassionati come uno dei periodi più floridi e seminali della storia della musica rock.
Di questa corrente che ha partorito quello che ora chiamiamo alternative rock si può dire, senza rischiare il linciaggio, che i Sonic Youth rappresentino forse la band più influente. Pochi altri sono riusciti a somministrare a intere generazioni di ascoltatori avanguardia e sperimentalismo, nascosti sotto a codici rock più o meno digestibili e tonnellate di chitarre elettriche.
I Sonic Youth ce l’hanno fatta, buttando nella loro musica tutto quello che la loro epoca aveva da dare, dall’arte urbana alla rabbia giovanile, senza scordare le rivendicazioni politiche.
In “Daydream Nation” c’è tutto questo e altro ancora. E ancora oggi, bastano i primi due minuti e mezzo di “Teenage Riot” per accorgersene.

(Stefano Solaro)

Quando abbiamo deciso di fare questo “special” per il trentennale di “Daydream Nation”, Piero Merola ha commentato l’iniziativa definendo il disco come l’album più influente nel mondo della musica rock degli ultimi quarant’anni. Potrebbe sembrare una definizione esagerata, magari del tutto arbitraria, sicuramente poi ogni giudizio va sottoposto a quello che è il proprio gusto personale, considerazioni che possono derivare da ragioni diverse, ma penso che questa affermazione vada ponderata per quello che vale in senso assoluto. I Sonic Youth, e “Daydream Nation” fu ed è ancora oggi considerato come il loro album più rappresentativo, sono stati la band rock alternative più influente a diversi livelli almeno per quello che riguarda gli anni novanta e il decennio successivo, prima che una deframmentazione ancora difficile da cogliere e dettata da fenomeni “liquidi” e come tali non solo scevri da forme e supporti di natura fisica, ma pure sfuggevoli, divenissero dominanti e la regola. Eppure allo stesso tempo il gruppo newyorkese fu anche il prodotto di una scena che ha contribuito in maniera unica e determinante alla cultura nel corso della seconda metà del secolo scorso. I Sonic Youth sono stati Andy Warhol e i corrispondenti diretti della sua definizione di pop-art, così come esponenti di punta e più facili, meno cerebrali, ma non meno all’avanguardia, della controcultura no-wave e di cui pure furono coevi. Oltre ogni definizione di genere, essi furono “pop” nel senso più alto. Da “Daydream Nation”, mentre il mondo rock mainstream usciva dalle spacconate anni ottanta, diveniva completamente dominato dalla scena “grunge” e i Nirvana, niente fu più uguale. Dopo la morte dell’ultima grande rockstar, Kurt Cobain, gli ascoltatori più appassionati si dispersero famelici a caccia di suoni che fino a poco prima erano argomento per pochi eletti.
Così tutto divenne “post-rock”, una definizione sicuramente abusata, ma proprio perché si faceva fatica a cogliere quello che gruppi come i Sonic Youth avevano fatto: furono tanto apprezzati così come non furono “capiti”. Non è importante. Ma sicuramente quel “post” significava “dopo” il momento più alto della popolarità ottenuta dai Sonic Youth, che dal 1988 fu e rimase alta e sempre più crescente fino a oggi. È il “Velvet Underground & Nico” degli anni ottanta. Trenta anni dopo sembra difficile possa uscire un disco come quello, oppure un disco così è già uscito, ma non lo abbiamo ancora capito oppure conosciuto tutti. Forse perché New York e il mondo occidentale non sono più il centro del mondo, che divenuto globale, aspetta ancora di essere colto per quella che è la sua dimensione che oggi ci appare piccola, ma che resta inafferrabile.

(Emiliano D’Aniello)