BRAINBLOODVOLUME No. 14

“The creatures outside looked from pig to man, and from man to pig, and from pig to man again; but already it was impossible to say which was which.”

Eric Arthur Blair aka George Orwell (1903-1950)

THE SHIFTERS, “Have A Cunning Plan” (Trouble In Mind Records, 2018)
Di questo gruppo e della scena di Melbourne, ha già parlato Monica Mazzoli in ‘La Melbourne “drunk pop” degli Shifters’ pubblicato sullo Scoutcloud di luglio.
Ancora suoni jangle pop dall’Australia. La domanda a questo punto è se ne abbiamo abbastanza oppure no. Se questo tipo di suoni non vi stanca mai e vi piacciono quelle sonorità garage psichedeliche orecchiabili, la attitudine cazzona tipica di una perduta genuinità indie e comunque tutte le uscite della Trouble In Mind Records degli ultimi tempi, allora la risposta è sì e quindi ascoltatevi anche questo gruppo di Melbourne, Australia. Loro sono The Shifters, un quintetto composto da Miles Jansen (voce e chitarra), Tristan Davies (chitarra), Louise Russell (tastiere), Ryan Coffey (batteria), Chris Gray (basso) finora avevano pubblicato solo un paio di singoli e una demo, prima di uscire su Trouble In Mind con il primo LP ufficiale intitolato “Have A Cunning Plan”. A sentirli non li si definirebbe proprio dei ragazzi terribili, ma in verità questi ragazzi hanno un approccio alla materia compositiva assolutamente fuori dagli schemi e che riflette poi quel contrasto con la società fortemente conservatrice del paese australiano, sulle cronache nell’ultimo periodo per non distinguersi certo per predicare una cultura progressita e dalla mentalità aperta, e che cercano qui di combattere con una dissacrante ironia e una schizofrenia nello stile Devo (vedi “Medieval Kicks!”), espressa con avvolgenti giri di basso (“Molasses”, “Pyramid Scheme”) e tempi ossessivi come il post-punk di “Carlisle”.

Ma la componente più interessante è quella specie di “curiosità”, riproposta in chiavi diverse dal pop di Jacco Gardner e il progressive King Gizzard, che qui prende forme in riesumazioni dei Floyd di Syd Barrett in pezzi come “John Doe’s Colleague”, il sound anni sessanta di “Work/Life Gym Etc.”, le tastiere di “Boer Hymn” e “How Long?” e le sonorità jangle di “Straight Line”, fino alla canzone manifesto del disco, “Andrew Bolt”, una specie di trip, come surfare tra le onde in una miscela esplosiva di garage psichedelia e irriverenza indie autentica tipo Pavement, suona quasi come una versione dissacrante dei Black Angels, che davanti a suoni così freschi fanno quasi un po’ la parte dei nonnetti bacchettoni e troppo seriosi. Mentre qui invece non ci sta tanta voglia di prendersi sul serio e questo disco in fondo suona bene proprio per questa ragione e fosse stato diversamente, non avrebbe avuto ragione di esistere.


ROBB KUNKEL, “Abyss” (Future Days Recordings, 2018)

Ennesima operazione di recupero della Light In The Attic e uscita su vinile su Future Days. Il disco si intitola “Abyss” ed è l’opera unica di Robb Kunkel, giramondo e suonatore di pianoforte che per un periodo bazzicò attorno alla Tumbleeweed Records di Denver in Colorado, la label fondata nel 1971 da Bill Szymcyz (poi produttore degli Eagles) e Larry Ray e conosciuti entrambi poi anche per il loro lavoro con la ABC/Dunhill Records. Una esperienza breve e di cui questo disco uscito viene considerato in qualche maniera come il lavoro di punta e la autentica gemma delle produzioni della label. Robb Kunkel era un pianista talentuoso e un compositore dotato di una sensibilità rara e il cui sound si inserisce perfettamente nel contesto musicale di quel periodo. Evidenti i riferimenti al sound californiano che già si era cominciato a diffondere dalla fine del decennio precedente, così come lo si può avvicinare a scrittori di canzoni come Todd Rundgren, ma anche Donovan oppure Brian Wilson.

Per quanto sia un episodio unico nella storia di questo musicista e compositore (ha scritto canzoni anche per altri musicisti nel giro della Tumbleweed: Danny Holien, Dewey Terry del duo Don and Dewey, Pete Mccabe…), il disco è veramente rappresentativo delle sue capacità e del suo talento, così come costituisce un recupero fondamentale per gli amanti di quelle particolari sonorità. Kunkel apre con una serie di ballad psichedeliche che rievocano paesaggi californiani e tipicamente west-coast come “You Were The Morning”, “Whispermuse”, ma il gusto più vario negli arrangiamenti si sente da subito con l’uso degli archi e del violino, una visione più ampia che prima si disimpegna nello swing di “Country Blues”, poi le dimensioni Beatles psichedeliche di “O Light”, il rock and roll seventies “lounge” di “Abyss”, “Monterrey”, “Ten Summers”, il piano rock stile Elton John di “Airhammer Eddie”, la assolata “Play de Bagdad” e il Marc Bolan più complesso di “Turn of the Century”.

Il disco resta quindi l’unico lascito sul piano musicale di quello che poi fu un artista a 360°. Infatti Robb Kunkel è morto nel 2015, aveva 64 anni. So veramente molto poco su di lui, ma è una figura che va evidentemente approfondita, un autore di “rock opera” visionaria e che pare abbia anche scritto e pubblicato diversi racconti tratti dai suoi viaggi e che riprendevano poi in qualche modo le stesse tematiche contenute nei testi delle sue canzoni. Sarebbe stato bello se fosse stato ancora vivo oggi che questo disco è stato finalmente riproposto, ci avrebbe potuto dire molto su questo disco e il suo lavoro, ma le cose sono andatae così: qualche volta ti ricordi che c’era stato Bill Fay oppure Ed Askew, Linda Perhacs, qualche volta ti dimentichi di un cantautore così bravo come Robb Kunkel oppure te ne ricordi dopo. Perché in fondo non è mai troppo tardi. Gioiello.


THE OSCILLATION, “Wasted Space” (Fuzz Club Records, 2018)

Gli Oscillation di Demian Castellanos sono sicuramente una delle realtà più interessanti nel panorama rock psichedelico e alternative del nostro continente. Peraltro nonostante sia un autore parecchio prolifico ad oggi riesce comunque a rinnovarsi di volta in volta e proporre contenuti che sono interessanti e anche all’avanguardia rispetto allo scenario complessivo. Di base a Walthamstow, UK, Castellanos ritorna su Fuzz Club dopo la pubblicazione di “UEF” all’inizio di quest’anno e riprendendo lo stesso sound acido e groove psichedelico esaltato nel genere dal solito genio visionario Anton Newcombe con “Who Killed Sgt. Pepper?” (2010), uno degli album manifesto del decennio.

È una svolta nata dopo la pubblicazione di un album spigoloso come “Monographic” del 2016 e che accolgo positivamente e che secondo me potrebbe segnare una nuova fase per la musica alternative contemporanea e la controcultura del movimento psichedelico. Parliamoci chiaramente: non parliamo di roba del tutto nuova . Il richiamo alla cultura rave riprende una storia lunga almeno vent’anni e che ha chiaramente formato molti esponenti del genere. Poi certo chiaramente Castellanos ci mette del suo e qui alla componente da dance-floor combina il suo gusto per la psichedelia e un’esperienza oramai pluriennale nel genere. “Wasted Space” è un disco di canzoni, a differenza di “UEF”, ma mantiene la stessa componente space disco in forma strumentale e sviluppata nella title-track, “Entity, “Drop” con forme che possono anche ricordare sessioni dei Prodigy oppure The Future Sound Of London. Sono composizioni simmetriche, nello stile tipico della intera produzione The Oscillation, costruite su diagrammi scossi da ondate drone (“Visions Of Emptiness”) pure se in una lunga sessione di space music minimalista come “Luminous Being”. La enfasi che si accentua sulla componente di carattere meditativo e che spinge a che si rivolge al “terzo occhio” e al subconscio con messaggi subliminali, si interrompe forse solo con “The Human Shell”, che suona come suonerebbe “Space Oddity” se fosse stata scritta oggi in un’epoca in cui la corsa allo spazio non fa più sognare, ma questo (il cosmo) appare quasi minacciato da delle milizie armate pronte a segnare dei confini al limite della atmosfera togliendoci pure l’aria che respiriamo. Il vero messaggio probabilmente è che in fondo nessuno spazio è veramente sprecato: anche quello che è apparentemente vuoto ha una sua funzione e a volte occuparlo per forza con qualche cosa costituisce una barriera che blocca oppure veicola in un circuito chiuso ogni forma di comunicazione.


PIGS PIGS PIGS PIGS PIGS PIGS PIGS, “King Of Cowards” (Rocket Recordings, 2018)

Probabilmente sono gli psiconauti più tosti in circolazione in queto momento. Già il precedente “Feed The Rats” li aveva e ci aveva praticamente sparati in orbita un po’ come il maiale dei Pink Floyd di “Animals” (“Algie”) che idealmente continua a oscurare il grigiore del cielo nell’Inghilterra della Brexit dalla Battersea Power Station di Londra fino a Newcastle Upon Tyne nel Nord-Est del paese, ma adesso con questo album i Pigs x 7 si sono definitivamente consacrati come il gruppo più sporco e cattivo, dissacrante e primitivo, muscolare e critico nel panorama del Regno Unito. “King Of Cowards” (Rocket Recordings) è un disco massimalista, poderoso come un pugno in faccia di Mike Tyson, ha la potenza del sound dei Motorhead misto alle visioni psicotiche spaziali Mastodon e predicazioni religiose apocalittiche che citano tutti e sette i peccati capitali uno in fila dietro l’altro in una rivisitazione degli insegnamenti cattolici che non può non essere critica e che porre al centro del pensiero l’uomo inserito nel contesto sociale del mondo contemporaneo. Del resto Matt Baly parla di un processo compositivo che è nato in maniera spontanea sia sul piano del suono che delle liriche, ma poi non nega la matrice fondante del progetto che affonda in maniera citazionista sin dal nome la letteratura di George Orwell e la sua “Animal Farm”, opera immortale e senza tempo, distopica e sempre attuale e che possiamo pure oggi slegare dal contesto originario (senza rinnegarlo, la storia è storia) e interpretrare sulle basi del mondo attuale e di questa sempre più profonda spaccatura nel tessuto sociale della vecchia Europa (ma non solo) che sta portando a una deriva negazionista e sbilanciando a destra l’intero asse geo-politico planetario.

Non è lo stesso nichilismo di gruppi come gli Idles, che considero dei simpatici cazzoni, ma cui non riesco a dare un valore “critico” sul piano politico e sociale. I Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs non fanno parte comunque di quel tipo di circuito, non hanno nessuna connessione con il “no future” del punk e il loro rigetto non è solo espressione di dissenso, l’imprinting di base e il concept sviluppato esulano da “pose” e hipsterismi e si concentrano in un addensarsi di nube oscure e suoni densi, pesanti, che sono la manifestazione di un disagio derivato dal vivere in un contesto periferico, in un nord-est che probabilmente somiglia molto a quello del nostro paese. È un disco che non ammette compromessi: possono piacere oppure no, ma la fascia di ascoltatori appassionati può essere eterogenea e andare dal rock psichedelico a derive doom più che stoner e che tra la densità di corpi celesti e incubi sotterranei non riconosce nessuna via di mezzo. Lì dove ci sono solo le mangiatoie dove si accalcano i maiali e si affannano uno sopra l’altro per la sopravvivenza.


EXPLODED VIEW, “Obey” (Sacred Bones, 2018)

Il secondo LP degli Exploded View consacra il progetto di Annika Henderson, Hugo Quezada e Martin Thulin come una delle realtà più interessanti per quello che riguarda quei suoni psych sotterranei e acidi di ispirazione Suicide. Una combinazione fortunata e con coordinate geografiche che uniscono Berlino con Città del Messico, dove è stato registrato il disco (specificamente presso lo studio di proprietà di Hugo e Martin) con l’ingresso nel roster della new-entry Amon Melgarejo, che ha sicuramente ampliato il ventagio di possibilità del gruppo sul piano espressivo e delle composizioni musicali. Al centro del progetto resta comunque la voce di Annika e la sua figura intellettuale. Giornalista e scrittrive, attività politica e già musicista collaboratrice di Geoff Barrow (Portishead) nei Beak>, Annika ha voluto contestualizzare l’album nella dimensione internazionale contemporanea. “Obey” (il pensiero va immediato a John Carpenter e al marchio reso celebre da Shepard Fairey) è un disco che affronta tematiche politiche e sociali e la triste considerazione che oggi questa “obbedienza” significa non solo essere sottoposti a quello che oggi si può considerare come “sistema”, adoperando una metodologia che piace così tanto soprattutto ai movimenti populisti, ma anche come mancare sul piano puramente critico. Una specie di “sottomissione” (islamismo a parte, possiamo pure pensare alle visioni negative del solito provocatore Michel Houellebecq) dell’intelletto a processi che considerandoli come più forti e parte di un sistema indefinito, ci appaiono per forza di cose inattaccabili, persino incomprensibili.

Quello che domina così è il sentimento della “paura” e che qui viene sviscerato con al rivendicazione della libertà sul piano dei diritti e della epressione e del pensiero. Non è un disco nichilista, “Obey”, ma sicuramente ricco di inquietudini che vengono affrontate in una dimensione volutamente definita come “orinica”. Un album a tratti allucinogeno come delle luci al neon che “evaporino” sotto la pioggia (“Letting Go Of Childhood Dreams”) e caratterizzato da un basso vigoroso e che segna con linee marcate i tempi delle canzoni con uno stile che rimanda alla new-wave, suoni freddi come mercurio allo stato liquido miscelato a un minimalismo meccanico devoto al mito del transumanesimo e compulsioni ipnotiche tutte alimentate dalla voce di Annika che non si erge mai in maniera imperiosa, ma che come una nenia anestetizza gli ascoltatori e li porta poi faccia a faccia con il proprio subconscio, qualche cosa di spaventoso (ecco) ma eppure di doveroso per quello che si considera come appartenente alla specie dei sapiens. La descrizione potrebbe far pensare a un disco difficile, ma non è così. Se qualcuno ci sente qualche cosa dei Radiohead, be’, forse non si sbaglia troppo: la crescita del gruppo va anche in una direzione più facile ma forse più accattivante. Un buon disco.


SUNDAYS & CYBELE, “On The Grass” (Guruguru Brain, 2018)

In bilico tra rinnovamento del movimento rock psichedelico e il revival della tradizione pop-rock giapponese degli anni sessanta-settanta, Kazuo Tsubouchi, la figura attorno a cui gira il progetto Sundays & Cybele, ritorna con un disco che forse si porebbe definire una vera e propria rock opera secondo una visione progressive che oggi si definirebbe come antiquata, ma che forse proprio per questo suo carattere vintage qui risulta convincente e originale. “On The Grass” è il quarto disco in studio del gruppo (completato da Yoshinao Uchida alla chitarra, Shota Mizuno al basso e Shotaro Aoki alla batteria) che costituisce con Kikagaku Moyo la punta di diamente del roster Guruguru Brain, ma rispetto a quelli che possiamo definire come loro “fratelli maggiori”, i Sundays & Cybele hanno sempre guardato a una visione più pop dell’immaginario psichedelico e fortemente influenzata da un certo romanticismo, che se pure è presente pure nella tradizione giapponese, guarda con convinzione a occidente. Lo stesso nome del gruppo è manifestamente la citazione di “Les dimanches de Ville d’Avray” di Serge Bourguignon e interpretato da Hardy Kruger nel ruolo del protagonista.

La componente melodrammatica e cinematica viene sviscerata anche all’interno di “On The Grass”: canzoni come “The End of Summer”, “City of Bubble” e “Incarnation” sono temi devozionali a poeticismo, pretesa di commuovere a tutti i costi e probabilmente ci riescono, suonando lontane nel tempo e per noi occidentali anche “esotiche”, grazie alle fluorescenze lounge Made In Japan. Un suono comunque liquido, sviluppato pure nel resto dell’album in tracce sintetiche come “Arms#1” e le visioni pink-floydiane anche massive in pezzi come “Unbalanced”, “Burning Flag”, fermo restando l’imprinting acido giapponese propagine della tradizione anni sessanta-settanta e fino ai chitarrismi di Michio Kurihara. Alla fine suona come un disco rock progressive francese sotterraneo degli anni sessanta-settanta, magari non sarà un capolavoro, eppure è molto particolare e potrebbe pure colpire nel segno e fino in fondo gli animi più sensibili e chi sogna ad occhi aperti e crede fortemente in un principio di bellezza ideale e scevra da contaminazioni. Perché no del resto. Guardare il lato positivo e la bellezza delle cose non significa necessariamente ingenuità, ma può essere un grande potere.


KIKAGAKU MOYO, “Masana Temples” (Guruguru Brain, 2018)

Sicuramente sono il gruppo più rappresentativo della scena contemporanea psichedelica del Sol Levante. I Kikagaku Moyo arrivano al quarto LP in studio forti di una serie di exploit e dopo avere oramai ottenuto ampio riconoscimento in tutto il mondo occidentale. Il gruppo fondato nel 2012 e concepito inizialmente come una specie di collettivo legato alla scena underground di Tokyo, ha raccolto il testimone della tradizione rock psichedelica in una maniera forse più performante e diretta che esperienze come Acid Mothers Temple oppure Ghost e derivati. Senza nulla togliere a gruppi e musicisti che costituiscono icone e punti di riferimento non solo per la scena rock psichedelica e alternative giapponese, ma che hanno fatto proseliti in tutto il mondo, il lascito di quella scena “Japrocksampler” raccontata da Julian Cope sta più nelle mani di questo gruppo. Ma questa non è una casualità. La verità è che il lavoro di Julian Cope è stato fondamentale anche per gli stessi giapponesi. Al contrario del kraut-rock, che era stato mai dimenticato, ma rilanciato però in maniera massiva dal suo lavoro di ricostruzione accurata dei fatti storici, il rock giapponese degli anni sessanta-settanta fu invece letteralmente “scoperto” e rivelato agli stessi nipponici proprio dal mitico arcidruido. Bisogna dire del resto che non è vero che il rock psichedelico sia così diffuso e conosciuto in Giappone e che non esista nessuna vera scena alternative. Il mondo della Guruguru Brain è un piccolo mondo. Che però per fortuna esiste e nella sua ristrettezza ci fa scoprire la parte più viscerale del Giappone e che si esprime in una esplosione sintetica di fiori di loto colorati.

“Masana Temples” è un disco più avvicinabile rispetto a quelli precedenti, ma non per questo meno interessante. Al contrario. Il suono è meno acido, meno rock anni settanta e le sonorità sono più pop e coinvolgenti e riprendono anche alcune caratteristiche della musica più tipicamente giapponese. Questo succede forse anche a un lavoro più ampio per quello che riguarda le composizioni e viene raccontato nella presentazione del disco anche come il testimone di una mutazione continua e dovuta alla natura “nomade” del gruppo. Il tema principale qui sembrerebbe svilupparsi in soluzioni che nei tempi ricordino King Gizzard & Lizard Wizard e mescolate a forme di cantautorato jazz e proiezioni quadrimensionali YMO. Fondamentali quindi il ruolo di strumenti come basso e tastiere e synth con risultati che costituiscono combinazioni quantomeno divertenti. Probabilmente è un disco alla fine non significativo e potente come i precedenti. Forse è una soluzione che potrà dare al gruppo un maggiore riscontro sul piano commerciale, ma non mi convince particolarmente e in fondo continuo a trovare il loro “sound” originale molto più interessante e viscerale, autentico.

Emiliano D’Aniello

10.10.2018