BRAINBLOODVOLUME No. 7

BRAINBLOODVOLUME è la rubrica kalporziana di musica psichedelica a cura di Emiliano D’Aniello e dedicata a delle pubblicazioni scelte che abbiano quei connotati nei quali riconosciamo una determinata componente psichedelica e molte volte anche psicologica. Del resto parliamo di musica, una esperienza sensoriale tout-court, come si fa allora a non considerare proprio tutto ciò che attiene la psiche, il pensiero. Ma che cos’è veramente questo in un mondo che appare sempre più dominato dalle macchine. C’è chi dice succeda lo stesso anche nel mondo della musica: siamo noi che usiamo le macchine o sono queste che usano noi. Be’, la verità è che nessuna macchina, per quanto sofisticata, potrà mai sostituire un uomo in tutte le sue componenti. Nessuna macchina è capace di riprodurre una variabile infinita e anche imprevedibile di scelte, ma soprattutto di emozioni e senza di queste puoi fare tutte le scelte che vuoi, ma la tua musica non avrà nessun senso. Quindi le macchine sono uno strumento? Certo, nel campo musicale costituiscono uno strumento tanto quanto la chitarra oppure il contrabbasso (diciamo che spaccare la vostri chitarra elettrica comunque non vi renderà in ogni caso dei neo-luddisti). In quello medico hanno la stessa dignità di un bisturi. Così via dicendo… Come tutte le cose, le macchine sono state create dall’uomo per l’uomo. Poi siamo noi che scegliamo come le dobbiamo usare. Ma distruggere (come la violenza, che è l’ultimo rifugio degli sciocchi) in fondo è sempre un atto di barbarie.


BART DE PAEPE, “Pagus Wasiae” (Beyond Beyond Is Beyond Records, 2018)

La Beyond Beyond Is Beyond Records è una delle mie etichette di riferimento. Le pubblicazioni della label con sede a Brooklyn, New York non sono molte, ma ognuna di queste è accuratamente selezionata e alla fine costituisce spesso uno dei momenti più rilevanti e sperimentali nel macro-mondo del genere psichedelico. In questo caso l’attenzione si focalizza su Bart De Paepe, un musicista belga proveniente da Stekene nelle Fiandre Orientali. Sperimentatore nel campo della musica psichedelica sulle scene già da più di dieci anni e titolare di una sua etichetta (la Sloow Tapes) e descritto come un musicista che cura in maniera maniacale ogni dettaglio sia sul piano tecnico che strutturale, Bart è già da tempo oggetto di attenzioni presso una cerchia di attenti e fortunati ascoltatori che chiaramente, come i nuovi adepti, non potranno che entusiasmarsi davanti a questo nuovo capitolo aggiunto alla sua già composita e variegata costellazione personale.

Praticamente un compositore d’altri tempi, Bart De Paepe in questa sua prima pubblicazione su BBIB denominata “Pagus Wasiae” e rilasciata lo scorso 20 aprile, riprende quella tradizione minimalista di giganti come Terry Riley e Steve Reich in una dimensione multiforme e poliedrica della space music dei Tangerin dream oppure Popol Vuh ma soprattutto richiamando la pesante eredità dei Cluster, i divini della musica ambient mitizzati e celebrati dall’arcidruido Julian Cope. Caratterizzato da un approccio creativo astratto ma allo stesso tempo perfettamente consapevole e motore immobile e senziente di questo universo psichedelico in rotazione e dove turbinii drone, battiti motorik 4/4 sotterranei e esplosioni cosmiche e apocalittici juggernaut danno vita a un planetario quadrimensionale, Bart De Paepe è qui autore non solo di un disco bellissimo e molto particolare, ma soprattutto in maniera – come dire – generosa oppure “cosmica”, secondo la accezione ellenistica del termine, ci concede l’ingresso in questo suo mondo che in continua espansione, con nuovi ascoltatori non potrà che continuare a crescere. Che dire. Non so voi, ma io credo proprio che questa volta indossaerò la mia tuta spaziale, lascerò questa astronave e mi lancerò a occhi chiusi in questa avventurosa e lisergica attività extraveicolare nello spazio remoto della mente.

80/100


MEDISTATION, “Medistation EP” (Fuzz Club Records, 2018)

Gli Orange Revival sono stati sicuramente uno dei gruppi più interessanti nel panorama neo-psichedelico di questi ultimi anni. Se il primo LP (“Black Smoke Rising”, 2011) era stato un oggetto di culto per pochi, il successivo “Futurecent” (mastering dal mitico Peter Kember aka Sonic Boom) è stato fino a questo momento sicuramente uno dei pezzi forti tra le pubblicazioni della Fuzz Club Records e sicuramente uno dei migliori dischi di musica psichedelica dell’anno 2015. È quindi naturale che questo nuovo progetto di Eric Strand, il fondatore e co-titolare degli Orange Revival assieme al polistrumentista Christian Eldefors (NONN) sia stato immediatamente accolto dalla label del Regno Unito, che lo scorso 20 aprile ha quindi pubblicato li primo EP eponimo di “Medistation”.

Il progetto è qualche cosa cui Eric lavora sin dal 2014, ma nessun materiale è mai stato finora oggetto di pubblicazione, quindi le cinque tracce dell’EP sono tutte inedite. Mixato dal solito James Aparicio, il sound è fondamentalmente lo stesso che quello degli Orange Revival ma reso in una forma più minimale o comunque questo è quello che possiamo considerare relativamente gli arrangiamenti. Il disco si apre con il pezzo migliore del lotto, cioè la oscura ballads rock-blues “Pool Of Blood”, che fa chiaramente il verso agli Spacemen 3 e certe “ambientazioni” Suicide. Il resto del campionario sono per lo più accattivanti ballads rock and roll psichedeliche dove si oscilla tra materiale Jesus and Mary Chain (“I Never Knew”) a gospel J. Spaceman (“Anything For You”, “The End”).

Che dire? È solo un EP, ma le indicazioni ricevute e l’esperienza passata di Eric ci lasciano già immaginare quale potrebbe essere la destinazione del progetto. Secondo qualcuno si potrebbe trattare di nulla di troppo originale. Del resto leggo in giro un mucchio di gente che sembrerebbe essere stanca della psichedelica della Fuzz Club Records. A me piace. Poi se questa mancata “originalità” (ammesso vi sia) per voi costituisca un limite all’apprezzamento di queste belle e promettenti cinque canzoni, allora non penso proprio che il disco possa entusiasmarvi, però poi magari mi spiegate come fate a continuare a ascoltare dischi (buoni) che magari sono usciti 10-20-30-40 anni fa e che per ragioni evidenti non possano certo oggi definirsi “originali”. Alla fine le mode passano, le cose buone restano sempre.

73/100


WAND, “Perfume EP” (Drag City Records, 2018)

Perché i Wand non siano una delle band più popolari in circolazione costituisce un mistero. Voglio dire che è veramente raro (se non ipossibile) trovare in circolazione un gruppo che sappia coniugare, anzi direi invece amalgare, ossessioni rock psichedeliche e sonorità garage sperimentali, sublimandole in un trionfo sonico power pop, dimostrando allo stesso tempo uno spiccato talento per la melodia quanto notevolissime capacità tecniche proprio sul piano della mera esecuzione, che per quanto mi riguarda costituisce un aspetto secondario (irrilevante) ma che qui viene sapientemente dosato costituendo quindi un valore aggiunto.

Tra le band di spicco nel roster variegato della Drag City Records, il gruppo di Los Angeles capitanato da Cory Hanson ha già infilato uno dietro l’altro dischi bellissimi come “1.000 Days” e “Plum”, pubblicato solo lo scorso 22 settembre e in uno stato evidentemente di grazia sul piano creativo, che qui viene confermato in toto con questo EP dalla durata di trenta minuti denominato “Perfume” e in uscita il prossimo 25 maggio. Registrato in tour in giro per gli USA e la Grass Valley, California da Tim Green, il disco è stato mixato a Woodstock da Daniel James Goodwin: le sette tracce confermano appieno quanto accennato in apertura sulle qualità melodiche del gruppo che qui si combinano con una certa free-form tipica di espressioni musicali degli anni settanta e sviluppata dai Red Krayola e poi in forma diversa nel mondo wave dai Pere Ubu di David Thomas, ma l’effetto è meno cupo, al contrario brillante, pieno di colori (“Perfume”, “Town Meeting”, “Train Whistle”…) e di conseguenza poi espanso in dimensioni più tipicamente pop come “The Gift” e “Pure Romance”, il minimalismo naturalista di “Hiss” e la bellissima ballad psichedelica dal sapore vintage “I Will Keep You Up”. Non gli dò il massimo dei voti solo perché è un EP ma francamente non vedo come questo disco possa non piacere.

78/100


MINAMI DEUTSCH, “With Dim Light” (GuruGuru Brain, 2018)

Mi avevano diciamo depistato per quello che riguarda questo nuovo LP dei Minami Deutsch, la band formata a Tokyo nel 2014 da Kyotaro Miula e che oggi costituisce uno dei gruppi di punta della GuruGuru Brain. Ne avevo parlato con un amico in occasione di questo disco intitolato rilasciato solo in formato digitale dai Dhidalah (altro gruppo nel roster dell’etichetta) e intitolato “Moon People” e in cui questi pazzi Jap si scatenavano in una sessione di jam psichedelia acidissima come nella tradizione più caratteristica del rock del paese del sol levante. In questa occasione mi si faceva notare come invece i Minami Deutsch avessero invece abbandonato quella richiamata acidità tramandata da Julian Cope sulle pagine di “Japrocksampler” (un testo che è considerato peraltro come una vera e propria “bibbia” anche dagli stessi giovani musicisti giapponesi: se non fosse stato per Julian Cope molti non avrebbero saputo nulla di quella scena) per approdare a un tipo di sonorità più leggere e meno convincenti.

Adesso non ci sono dubbi sul fatto che “With Dim Light” sia un disco diverso e persino atipico nel panorama della musica psichedelica giapponese, ma è anche vero che segnali di un rinnovamento e di un ampliamento dei confini nel genere costituisce oggi già una realtà; così come è vero che questo disco qui, registrato da Miula e la band in un paio d’anni tra il 2016 e l’inizio del 2018, non tradisce sicuramente gli appassionati di psichedelia e di quei “sapori” tipicamente orientali (a parte che la acidissima “Tangle Yarn” e la vintage folk-psichedelia di “Bitter Moon” si allineano perfettamente al contest). Al contrario il disco offre una varietà di suoni interessanti: da un certo avant-rock nello stile Rangda di “Concrete Ocean” alla kraut psichedelia allucinata e ossessiva di “Tunnel”, il groove di “I’ve Seen a UFO” e la space music di “Don’t Wanna Go Back”. Pezzi che sono sicuramente non sicuramente easy-listening, ma che si allineano a modelli musicali come Maserati oppure Trans Am che non si possono del resto neppure definire come musica complessa oppure non per tutti. Sicuramente convincente.

72/100


EARTHLESS, “Black Heaven” (Nuclear Blast, 2018)

Vi consiglio di tenervi alla larga da dischi come questo: pure avendo quella che possiamo considerare una certa carica adrenalinica, hanno il limite non solo di non dire nulla di nuovo sul piano musicale, ma alla fine pretendono di giustificare con un certo sfarzo quelli che poi sono dei veri e propri limiti sul piano concettuale. Nella specie mi riferisco comunque a questo ultimo disco degli Earthless, il trio californiano originario di San Diego e composto da Isaiah Mitchell, Mario Rubalcaba e Mike Eginton, già sulle scene da più di dieci anni e che qui tocca un traguardo importante pubblicando su una label molto considerata nel mondo del metal e dell’hard-rock (conseguentemente di generi come lo stoner oppure lo sludge) come la Nuclear Blast. Prodotto da un big del genere come David Catching e registrato ai mitici Rancho De Luna Studios (chi ama Kyuss e QOTSA sa di cosa sto parlando), il disco si intitola “Black Heaven”, è uscito lo scorso 16 marzo e contiene sei pezzi di rock acido che paga devozione alla scuola degli anni sessanta di artisti come Jimi Hendrix e i Cream, gli Zeppelin e gli ZZ Top.

Per la prima volta il gruppo sceglie di arricchire le proprie composizioni di parti vocali e in questo modo forse rendendo in qualche maniera più variegato il contenuto della loro produzione e del resto il pezzo migliore, “Sudden End”, che suona praticamente come un superclassico rock anni settanta, è quello principalmente centrato sulla parte vocale rispetto al resto del disco. Che è praticamente da “Gifted By The Wind” a “End To End”, da “Electric Flame” a “Black Heaven” una serie di composizioni di rock and roll acido e di riff anni settanta già sentiti più spacconate di cui francamente pure non ci sarebbe alcun bisogno.

Un disco che si può comunque considerare nel genere psichedelico per le componenti acide e quella contestualizzazione desertica assolata tipica delle produzioni dei Rancho De Luna. Quella devozione nei confronti dei classici del rock, che poi si può riconoscere anche in big del genere neo-psichedelico come i Black Angels in particolare dell’ultimo periodo (effettivamente carente sul piano qualitativo e dell’ispirazione), che qualche volta può anche piacere, qui diventa troppo schematico, classico, pesante. A meno che non siate in fissa con quel tipo di suoni, lasciate perdere.

60/100


THE ORANGE KYTE, “The Orange Kyte Says Yes!” (Little Cloud Records, 2018)

La Little Cloud Records di Portland (fondata da Michael e Joe Nesbitt e Josiah Webb nel 2016) è una delle realtà più interessanti del momento nel panorama della musica psichedelica US. In un paio d’anni ha lanciato un gruppo interessante come i Magic Shoppe e ha pubblicato negli USA l’ultimo dei Pete International Airport di Pete Holstrom (The Dandy Warhols) e un paio di cose interessanti già nei primi mesi di quest’anno. Tra questi il secondo LP de gli Orange Kyte di Stevie Moonboots intitolato “The Orange Kyte Says Yes!” e uscito lo scorso 16 maggio. Accompagnato da Dave Mulvaney alla batteria e da Mat Duris all’organo elettrico, Moonboots riprende il sound garage rock and roll degli anni sessanta-settanta più provocatorio e ammiccante tipo Kinks con la prima psichedelia Pink Floyd e rimodula queste spinte vintage con una certa freschezza tipo Brian Jonestown Massacre anni novanta oppure Dandy Warhols e alcuni elementi addirittura derivativi dalla no-wave.

Penso ad esempio all’uso di uno strumento come il sassofono, usato per lo più per certe sfumature e per caricare maggiormente il suono ossessivo in slow-motion del garage rock di “More In” oppure nel rock and roll blues-psichedelico di “Anti-Establishment Haircut”, “Elvis Shot JFK” e la ballads BJM “Echolocation”, ma che in un pezzo come “Blue Ghosts” assume dei connotati quasi acid-jazz sperimentali nello stile Tuxedomoon. Ma i contenuti di questo dischetto tanto bello quanto pure sorprendente nella sua semplicità non si fermano qui. Anzi nel finale c’è spazio forse per i momenti migliori come la sessione lisergica “Looks Like Me 2 Me”, costruita interamnete sul sound dell’organo elettrico, i VU di “Goats” e ancora “P.T.R.”. Sinceramente ci sono veramente tante cose buone in questo disco che piacerà a una audience ampia e non legata strettamente a nessun genere specifico.

76/100


CAVERN OF ANTI-MATTER, “Hormone Lemonade” (Duophonic Ultra High Frequency Disks, 2018)

Parliamo di un disco diverso dal solito. Perlomeno per quello che riguarda questa rubrica dedicata al genere psichedelico e che comunque può benissimo comprendere anche derive nel campo della musica elettronica e soprattutto se come in questo caso i riferimenti principali vadano poi ricercati alle radici della musica kraut-rock e esperienze fondamentali come Cluster, Harmonia. Soprattutto i Kraftwerk. Del resto i Cavern Of Anti-Matter non sono sicuramente un gruppo di sprovveduti né dei debuttanti. Quello che voglio dire è che la qualità dei suoni di questo disco (elemento necessario per suggerire accostamenti quantomeno importanti) non è casuale Capitanato da Tim Gane de gli Stereolab, il trio completato da Joe Dilworth (ex Stereolab) e il “tecnico” Holger Zpaf, autentico ingegnere del suono nel senso più specifico del termine e costruttore delle drum-machine usate per registrare le basi poi adoperate per completare il disco unitamente a delle vecchie “macchine” Hohner e Eko degli anni settanta.

Queste tre lunghe sessioni di un’ora sono successivamente state manipolate da Tim Gane, che ha diviso l’intero lavoro in blocchi e poi ha cominciato a aggiungere sezioni ritmate con delle sovraincisioni e poi lavorate dal trio con l’arricchimento del suono di synth e sequencer e parti di basso. Questo lavoro in bilico tra sperimentazione d’avanguardia e artigianato non trascende sicuramente quelli che possono essere dei contenuti “pop” o comunque accessibili e che rendono di conseguenza “Hormone Lemonade” un disco che non è solo dedicato a ascoltatori più pretenziosi o a appassionati di musica kraut-rock, ma pure a chi ama sessioni di musica ambient dal contenuto psichedelico o comunque che si insinui sin dentro la testa dell’ascoltatore come mosso da una specie di flusso di coscienza multidimensionale. Registrato a Berlino presso i Metall Metall Studio e mixato al Calyx Mastering da Bo Kondren, “Hormone Lemonade” (Duophonic Ultra High Frequency Disks) è probabilmente uno dei momenti più suggestivi e intensi di musica kraut-rock elettronica usciti negli ultimi tempi. Vi potrà deludere solo se avrete la presunzione di chiedergli troppo e di non riconoscerne il contenuto fondamentale che poi sta in quella ripetitività delle oscillazioni sonore che sono alla base dell’intera struttura.

72/100

(Emiliano D’Aniello)