[Cannes chiama Kalporz] Diario 14 maggio 2018


È stato un vero e proprio giorno dedicato al Giappone, questo 14 maggio 2018 sulla Croisette. La nazione del Sol Levante era infatti rappresentata da ben due film, entrambi per di più in concorso. Da un lato una figura abituata ai ritmi del festival come Hirokazu Kore-eda, alla quinta partecipazione alla corsa per la Palma d’Oro in diciassette anni, e dall’altro Ryūsuke Hamaguchi, quarantenne che per la prima volta si ritrova in concorso e che Cannes spera con ogni probabilità di trasformare in un “autore del futuro”, per così dire.

Shoplifters rinnova l’amore cinefilo con Kore-eda, uno dei più grandi cineasti della contemporaneità e non solo in oriente (tra gli altri da citare quantomeno Maborosi, Nobody Knows, Father and Son, Little Sister). Un cineasta profondamente umano, che mette sempre davanti a tutti l’empatia verso gli ultimi, e la capacità di ragionare su temi tutt’altro che banali come i legami di sangue, il senso degli affetti, le radici familiari. In Shoplifters la famiglia naturale – così come ad alcuni piace considerarla – non esiste proprio, sostituita da un nucleo affettivo (nonnina, padre, madre, due figlioletti, una cognata in età universitaria) del tutto creato dal nulla, senza che sia rintracciabile alcunché nel DNA. Da principio lieve come un soffio di neve, il film diventa sempre più doloroso, fino a essere quasi insostenibile nella verità di una società che solo all’apparenza si dichiara aperta e democratica, ma in realtà pretende il rispetto di regole – morali prima che legali – ferree, pena l’esilio dal consesso umano. Uno splendore (il film, non la società).

Hamaguchi invece, che un paio di anni fa aveva portato in concorso a Locarno una stranissima commedia adolescenziale (Happy Hour) lunga la spropositata durata di oltre cinque ore, dirige Asako I & II, commedia romantica su una ragazza che si innamora dapprima di un dj che però la abbandona nel bel mezzo della notte senza addurre spiegazioni plausibili, e quindi di un bravo lavoratore un po’ noioso che è però il sosia del primo. La sua copia sputata. Da qui si inscena una narrazione che dirazza verso una strana riflessione sull’egoismo insito in ogni rapporto di coppia. Le idee ci sono, la regia non manca di intelligenza, eppure non tutto torna in questo affresco umano spaesato un po’ come la sua protagonista, interpretata dalla sorprendente Erika Karata, ventuno anni a settembre.

Dopo la sbornia nipponica, purtroppo non condita da leccornie da spizzicare qua e là – però alla terrazza dei giornalisti, al quarto piano del Palais, è arrivata la birra e gli accreditati sentitamente ringraziano – è stata la volta di BlacKkKlansman, il nuovo film di Spike Lee. Dimenticato da tempo dalla distribuzione italiana (degli ultimi cinque film diretti è uscito in sala solo il remake poco interessante di Oldboy: se vi va recuperate Red Hook Summer, Da Sweet Blood of Jesus e Chi-Raq) Lee sta attraversando una fase non certo esaltante della sua carriera, e BlacKkKlansman certifica in qualche modo tutti i problemi attraverso una narrazione ricca di buchi, di cortocircuiti e di passaggi a vuoto. Ma la storia vera del poliziotto afrodiscendente Ron Stallworth, che negli anni Settanta si mette a indagare sulla sezione locale (la città è Colorado Springs) del Ku Klux Klan, coadiuvato da un collega ebreo, di carne al fuoco ne ha davvero molta, a partire dall’ovvio parallelismo con le posizioni sul suprematismo bianco che circolano con Trump anche dalle parti di Washington. Zoppicante, con momenti comunque ispirati e una visione politica di lotta assolutamente apprezzabile, il film di Lee varrebbe la pena di essere visto anche solo per la presenza in scena, in una sequenza del novantunenne Harry Belafonte, un eroe della musica, del cinema e delle lotte per i diritti civili. Immenso.