[Cannes chiama Kalporz] Diario 11 maggio 2018

Quei rari momenti, nel corso di un festival, in cui ci si riesce a imbattere in due grandi film l’uno di seguito all’altro, vanno apprezzati e tenuti a mente come una cosa preziosa e, per l’appunto, tutt’altro che scontata. A Cannes sono arrivati, entrambi in concorso ed entrambi in grado idealmente di accaparrarsi la Palma d’Oro, Jean-Luc Godard e Jia Zhangke. Difficile capire se potranno davvero vincere il premio principale, anche perché Godard gioca una partita tutta sua, ribadendo la difformità rispetto al resto dei partecipanti al concorso. Le livre d’image è il nuovo ritorno del regista svizzero a una riflessione saggistica sul senso dell’immagine, sul suo potere – anche ideologico – sulla sua impossiblità a finire, a terminare, a chiudersi in maniera naturale e definitiva. Costruito attorno a migliaia di frammenti dei film più disparati, ma senza alcuna intenzione di trasformare questa scelta in un gioco mnemonico e citazionista – due aspetti della cinefilia che Godard rifugge in modo totale – Le livre d’image è un’opera densa, ostica, eppure straordinariamente vitale e perfino ironica e autoironica. In un found footage che potrebbe durare all’infinito, Godard cerca la chiave di volta per ragionare sulla fede in qualcosa di sacralizzato, ricacciando indietro le religioni del libro e rivendicando una possibile blasfemia per immagini. Ragionando sull’occidente, sull’Europa, sul sistema capitalistico e sull’umano che assoggetta e si fa assoggettare dall’umano. Un viaggio ipnotico in cui l’uso del dolby si fa quantomai fondamentale, delocalizzando le voci e i rumori e costringendo lo spettatore ad ascoltare, e a farlo veramente. Davvero difficile pensare che una giuria possa essere così coraggiosa da assegnargli il premio principale, ma si tratta come sempre di un’opera straordinaria, nel senso etimologico del termine, e di una potenza deflagrante.

È stato il vero risveglio della giornata, perché prima era arrivata la terribile delusione di Diamantino, esordio alla regia a quattro mani per Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt ospitata nella Semaine de la Critique – la sezione parallela che seleziona solo opere prime e seconde. Il film era attesissimo, perché i due giovani cineasti si erano fatti notare negli ultimi anni per i loro cortometraggi, sempre visionari e dotati di una dose non comune di genialità. La bizzarria domina anche Diamantino, che racconta la storia di una star del calcio portoghese – ogni riferimento a Cristiano Ronaldo è dichiarato ed evidente – che entra in crisi mistica quando sbaglia il calcio di rigore decisivo nell’ultimo minuto della finale mondiale che la sua nazionale sta giocando contro la Svezia; da qui parte un’incredibile avventura fatta di complotti governativi, di estrema destra che avanza, di migranti rifiutati e rifugiati e d’amore etero e lesbico. Peccato che lo strapotere visionario dei due registi non sappia né rinnovarsi né trovare il modo di inquadrarsi in una narrazione sensata: il film finisce così per apparire sterile oltre ogni dire, vuoto di reale senso e anche molto poco divertente visto che le gag sono sempre le stesse e ripetute allo sfinimento. Peccato davvero, ma il cinema è cosa un po’ più seria di quattro ideuzze bislacche messe in bella fila…

Ma torniamo alle grandezze della giornata, e arriviamo a Jia Zhangke e al suo Ash is Purest White, storia di malavita e di speranze mal riposte nel futuro. Storia della Cina degli ultimi venti anni, e del suo abbandono definitivo della Rivoluzione Culturale per abbracciare il neoliberismo capitalista. Storia del personaggio femminile protagonista – una superba Zhao Tao – del suo gesto d’amore che la porta in prigione e della sua rinascita forse impossibile per una donna che non vuole abbandonare i concetti d’onore e fratellanza della cosiddetta Triade per lasciare spazio a un nuovo non meno criminale ma più ripulito. Due ore e venti di estasi che confermano lo stato di grazia di Jia, tra i più grandi cineasti della sua generazione e uno dei pochi, pochissimi, in grado di ragionare in completa libertà sulla Cina, su ciò che ha rappresentato ma soprattutto su ciò che rappresenterà nel futuro prossimo. Il modo migliore per chiudere una giornata.