Best Songs 2018 So Far


Già l’anno scorso avevamo fatto questa classifica estemporanea, replichiamo. È che arrivati a questo punto dell’anno non è ancora il momento per avere un album del cuore, ma una canzone che amiamo con tutto noi stessi sì.


Piero Merola:

KENDRICK LAMAR & SZA, “All The Stars”

Il nuovo anno riparte come ci aveva lasciato. Due degli artisti black più chiacchierati e apprezzati lo scorso, grazie a due LP finiti in tutte le classifiche di fine anno, propongono un’emozionante ed epica pop song per il Marvel record d’incassi “Black Panther”.


Matteo Maioli:

MOUSE ON MARS featuring ERIC D. CLARK & ZACH CONDON, “Daylight”

Il duo teutonico ci rivela con “Dimensional People” il suo lato più caldo e umano, miscelando sapientamente digitale e analogico in una riuscita commistione di generi oltre la consueta “elettronica intelligente”. “Daylight” ne è la fotografia ideale a colpi di ritmica etno-funk, loop di strumenti acustici e richiami al soul/r’n’b.


Paolo Bardelli:

ALTIN GüN, “Cemalim”

Perché mi trasporta nelle scale melodiche bizantine e persiane, al di là dei passaggi melodici a cui siamo solitamente abituati.


Monica Mazzoli

DANIEL AVERY, “Citizen//Nowhere”

“Song for Alpha” – secondo album a nome Daniel Avery – e canzoni come “Citizen//Nowhere” ci ricordano come anche nel 2018 possa esistere un elettronica da clubbing fortemente emozionale, che faccia sognare anche durante l’ascolto in cuffia.


Nicola Guerra:

BEECHWOOD, “Heroin Honey”

La possibilità di essere qualsiasi cosa. Non rendersi ridicoli indossando pantaloni attillati dai colori sgargianti, trucchi fluorescenti, sguardi da modelli dopo una fumata d’erba. Per me il rock’n’roll sarà sempre questo. Incompatibilità col mondo che non si è mai messo dalla parte dei perdenti.


Emiliano D’Aniello:

WREKMEISTER HARMONIES, “A 300 Year Old Slit Throat”

Scegliere una canzone è difficile. Una volta si parlava di “concept album”, una definizione che descrive invero una struttura di tipo scolastico e programmatica. Però è chiaro che ogni lavoro abbia una componente comune che tenga legata tra loro tutte le canzoni. Così ho scelto questo pezzo intitolato “A 300 Year Old Slit Throat”, che apre il nuovo disco dei Wrekmeister Harmonies (“The Alone Rush”, Thrill Jockey) aka JR Robinson e Esteher Shaw. Registrato in un ritiro di due anni nella solitudine di Astoria nell’Oregon dopo una dolorosa perdita familiare, il disco è ricco di riferimenti letterari e si distingue dal resto delle produzioni WH per il sound che è in generale meno massivo e claustrofobico e che si dipana a partire dall’inizio in una lunga litania funebre colta e in un lirismo sacrale aulico. Si compie una vera e propria catabasi: come Ulisse nell’XI libro dell’Odissea restiamo sulla soglia dell’Ade in attesa fino alla realizzazione di una certa solitudine infinita e a quel senso di inevitabilità della morte e lasciamo andare quello che è stato, prima di voltarci e riprendere il nostro cammino.


Matteo Mannocci:

SOPHIE, “Faceshopping”

Perchè se approcci un’estetica o porti avanti il discorso seriamente o puoi anche fare festa. E in anni di strizzatine d’occhio al nuovo pop elettronico in HD, chi è riuscito ad abbracciarlo in maniera totale e coerente è chi gira intorno al collettivo PC Music. Quindi tanto di cappello a Sophie che ha tirato fuori uno dei probabili bangeroni del 2018.


Marco Bachini:

PREOCCUPATIONS, “Disarray”

Disarray è il primo bagno in mare dell’anno. Qualche onda, l’aria ancora un po’ tesa e quei tre mesi da scrivere lì davanti.


Chiara Toso:

NILS FRAHM, “Human Range”

Non classificabile se non a livello empatico. La razza umana é tutta qui.


Enrico Stradi:

JENNY HVAL, “Spells”

Non so voi, ma per quanto mi riguarda è molto difficile non pensare a Jenny Hval come una fattucchiera del nord, nata dall’unione del muschio dei boschi e delle spore di funghi allucinogeni. Una creatura fantastica, metà donna e metà qualcos’altro, capace di regalarci momenti musicali ispirati e distanti da tutto quello che siamo soliti ascoltare. “Spells” è solo l’ultima grande conferma: sei minuti abbondanti di musica che raccontano un’evoluzione, un percorso, non importa se reale o no. Un bosco fitto di rovi che all’improvviso si apre negli spazi aperti di una radura fiorita, un temporale che lascia spazio al sereno, un incubo che si trasforma in sogno: ognuno ci ascolti quello che vuole, l’incantesimo funziona comunque.


Stefano Solaro:

CAR SEAT HEADREST, “Beach Life in Death”

13 minuti di urla, chitarre, cambi di ritmo e versi tormentati che “odorano di spirito adolescenziale” e regalano attimi di pura esaltazione.