BRAINBLOODVOLUME No. 4

BRAINBLOODVOLUME: la rubrica kalporziana arriva al suo quarto capitolo e vi invita a sedervi al tavolo con Ben Chasny (Six Organs of Admittance) e giocare a poker secondo il suo sistema concettuale (e compositivo) fondato su occultismo esoterico e forme geometriche esagonali. Il nostro “cartaio” Emiliano D’Aniello, come da regolamento, non partecipa al gioco, ma si limita – come dire – a disporre sul tavolo sette nuovi ascolti che continuano la nostra esplorazione in ogni campo della musica psichedelica.

Mesdames et messieurs, voi invece accomodatevi, prego: siete tutti invitati a prendere parte a questa esperienza alchemica.

Fate il vostro gioco.


HOLY MUSHROOM, “Moon” (Not On Label, 2018)

65/100

Gli Holy Mushroom sono una formazione di musica psichedelica proveniente da Oviedo, città di circa duecentomila abitanti e capoluogo del Principato delle Asturie. “Moon” è il primo LP pubblicato lo scorso 9 febbraio dopo una specie di EP introduttivo uscito nel novembre del 2016. Il disco è chiaramente ispirato a sonorità heavy-psych ma l’imprinting di base della band si può dire sia sicuramente costruito su strutture che definirei tipiche e per lo più “tradizionali”. Il brano d’apertura, “La Caverna”, è uno space trip cosmico in cui le sonorità psichedeliche più acide sono inserite in un contesto tipicamente rock anni settanta e introduce questi caratteri diciamo “vintage” che poi sono una costante dell’intero album. “Birdwax Blues” dopo una lunga intro distorta e sostenuta dal vigoroso suono del basso, si apre in una specie di composizione rock and roll lamentosa e che rievoca i vecchi fantasmi del blues del delta; lunghe composizioni come “The Preacher”, “Eufrates” marcano a tratti su alcuni toni doom, ma tutto sommato continuano a galleggiare in un ambito per lo più classico, tanto che a tratti verrebbe quasi da menzionare formazioni come i Deep Purple.

Il momento più interessante è probabilmente la traccia conclusiva, “Grand Finale In The Blind Desert”, una lunga sessione dove fioriscono caratteri esotici e sonorità lontane nel tempo con eco tipici della regione delle Asturie e classiche sfumature orientali e che poi sfociano in una specie di fragore acido con l’intervento dei fiati e largo spazio al suono delle chitarre e dell’organo elettrico. Diciamo che il giudizio complessivo su questo disco non è negativo, ma questo gruppo ha comunque evidentemente bisogno di tempo per trovare la propria strada e potrà farlo solo slegandosi da un certo manierismo e reverenza nei confronti di esperienze storiche se non addirittura “antiquate”.


THE PREFAB MESSIAHS, “Psychsploitation Today!” (Burger Records/Lolipop Records, 2018)

75/100

Mi piacciono molto le operazioni discografiche che puntano a rilanciare vecchio materiale o comunque a focalizzare l’attenzione degli ascoltatori su pezzi della storia della musica che sono stati in qualche modo dimenticati. Mi ha molto colpito ad esempio la Drag City che ha pubblicato un mesetto fa “Poke It With A Stick”, l’unico LP degli Your Food uscito nel 1983 e facendo in qualche modo giustizia per quello che riguarda la scena punk di Louisville nel Kentucky. Ma se quello è stato un vero e proprio “ripescaggio” nel caso dei Prefab Messiahs parliamo di una band che dall’inizio degli anni ottanta ha letteralmente viaggiato nel tempo attraverso il sottobosco della scena alternative USA fino al giorno d’oggi e in particolare a partire dal 2012 quando hanno solo allora pubblicato il loro primo LP.

The Prefab Messiahs è un gruppo formato nel 1981 da tre studenti della Clark University di Worcester (Massachussets). La band oggi è composta da Xerox Feinberg, Doc Michaud, Trip Thompson e Mattyboyhorn e ha appena pubblicato su Burger Records e Lolipop Records il nuovo disco “Psychsploitation Today!”, un disco che mescola garage-psichedelia anni sessanta con una certa attitudine post-punk tipica degli anni ottanta e i cui riferimenti possono essere ricercati tanto nel sound più pop dei Beatles (“The Man Who Killed Reality”, “Having A Rave Up”) che nel surf rock con derivazioni 13th Floor Elevators e Electric Prunes (“Psychosploitation”, “Everything U No”…) fino a esperienze Elephant 6 (“Sometimes Sunnydaze”, “Gellow Mold”) e il potente vibe Rocket From The Tombs di “Outtayerhands”, “Monster Riff”, “Warmsinkingfeeling”. Se al primo ascolto potrebbe non colpire oppure suscitare persino una certa indifferenza, riascoltandolo più e più volte scoprirete che vi piacerà sempre di più a ogni giro. Fino a catturarvi completamente.


OULU SPACE JAM COLLECTIVE, “The Lotus-Eaters” (Not On Label, 2018)

70/100

Le esperienze nella forma di “collettivo” nel mondo della musica psichedelica sono tipiche nella tradizione nord-europea sin dagli anni sessanta. Queste praticamente riprendevano le esperienze delle “comuni”, ispirate a una cultura espansiva e ideologie pacifiste e anticonformiste e che in campo musicale sono state tradotte in quella forma di space music e che poi è praticamente quella che i tedeschi chiamano “kosmische musik”.

Gli Oulu Space Jam Collective sono uno degli esempi contemporanei più tipici di questa forma di ensemble psichedelico. Il collettivo si è formato nel 2014 da una “costola” dei Deep Space Destructors nella città di Oulu, un centro nella Finlandia settentrionale abitato da poco meno di centocinquantamila persone e capoluogo della provincia onomina e situato presso la foce del fiume Oulujoki e le rive del golfo di Botnia. Capitanato dal multistrumentista Joonatan Elokuu Aaltonen e creato a modello e ispirazione dei più celebri danesi Oresund Space Collective, questo disco pubblicato lo scorso 10 febbraio è praticamente il risultato di una jam session in studio con una band composta da sei elementi e che riprende concettualmente un poema di Lord Alfred Tennyson (1806-1892) che affronta il tema del contrasto tra isolamento e comunalità raccontando in una specie di esperienza alterata dell'”Odissea” di Omero le vicende di un gruppo di navigatori ideali che si isolano dal resto del mondo dopo aver mangiato i frutti del loto.

In tre lunghe tracce strumentali e nelle quali viene ripreso il carattere cadenziale e l’onomatopeia del componimento di Tennyson, il suono assume sempre sottoforma di space music una specie di dimensione ipnotica: ci caliamo così dentro atmosfere estatiche e paesaggi e visioni ideali in cui coltiviamo quella idea di fuga sviluppata nell’opera di Lord Tennyson in bilico tra il sempiterno desiderio di evasione e quei sensi di colpa espressi nelle battute più ossessive e drone che ci richiamano al contatto con la cruda realtà che ci circonda.


THE OSCILLATION, “U.E.F.” (Fuzz Club Records, 2018)

80/100

Per gli ascoltatori di musica neo-psichedelica Demian Castellanos non ha bisogno di presentazioni: il musicista londinese è uno dei principali agitatori del revivalismo psych made in Europe degli ultimi anni e una figura chiave nel variegato panorama del Regno Unito che se non costituisce l’unica realtà geografica del movimento, ha comunque nella capitale londinese una specie di centro strategico nevralgico. Chiaramente proprio a Londra è di base la Fuzz Club Records, che nel giro di poco tempo si è letteralmente affermata come “arguably the most important label in neo-psychedelia”: la collaborazione tra l’etichetta e Demian in tutti questi anni è stata solo una questione di tempo.

L’occasione è il nuovo LP degli Oscillation uscito lo scorso 2 marzo e intitolato “U.E.F.”, un lavoro che pure all’interno della ampia produzione di un artista così prolifico come Castellanos, costituisce qualche cosa di nuovo e un episodio sicuramente particolare. Il disco infatti costituisce praticamente in due lunghe sessioni di venti minuti ciascuna e in cui Castellanos cerca di emulare alcuni dei suoi “eroi” come Klaus Schulze e John Carpenter, di cui vi sono chiaramente delle inflessioni del suono per la devozione alla kosmische musik e per alcuni tempi thriller e ossessivi. Ma “U.E.F.” ha un sound affatto vintage: riflette di una luce stroboscopica e accencante, una specie di opera minimalista John Cage in una dimensione trance acida. In definitiva un disco che sovverte completamente ogni significato dato finora alla definizione di “space music” e che ci spara dritti alla velocità della luce in una nuova era.


PRANA CRAFTER, “Bodhi Cheetah’s Choice” (Beyond Beyond Is Beyond Records, 2018)

82/100

Definire William Sol aka Prana Crafter uno “psiconauta” sarebbe limitativo. La sua musica, sebbene orientata a visioni psichedeliche, guarda al di là dei confini del genere e ispirazioni cinematiche Popol Vuh, conformandosi secondi i canoni estetici e tenici di opere di compositori minimalisti come John Fahey e quella forma di primitivismo che nel genere folk psichedelico contemporaneo trova un suo degno rappresentante in un musicista brillante e intellettuale come Ben Chasny (Six Organs of Admittance).

“Bodhi Cheetah’s Choice” è il primo disco di Prana Crafter pubblicato su Beyond Beyond Is Beyond Records. Il disco è concettualmente concepito come una rappresentazione allegorica e carica di simbolismi di una ideale esperienza nella foresta delle Woodlands in atmosfere nebbiose e profondamente evocative. Ispirandosi ai principi del buddhismo della ricerca della natura originaria di tutte le cose, il disco immerge l’ascoltatore nello stesso campo meditativo sintetico raffigurato dalle visioni di William e dove diveniamo letteralmente tutt’uno con questa foresta vibrante di vita e assumiamo chiudendo gli occhi e concentrandosi attentamente sulla musica, quelle che sono forme e composizioni astratte.

In una alternanza tra i richiamati principi del primitivismo americano con composizioni sintetiche deep ambient suggestive e minimalismo “Bodhi Cheetah’s Choice” è una vera e propria rivelazione e che ci apre gli occhi verso nuove prospettive interiore ma anche su di un artista che è evidentemente talentuoso e che merita tutte le nostre attenzioni.


DEAD MEADOW, “The Nothing They Need” (Xemu Records, 2018)

75/100

I Dead Meadow ritornano finalmente a pubblicare un disco nuovo a distanza di cinque anni da “Warble Womb” (2013) e in occasione del ventennale della nascita della band che fu formata appunto nel 1998 a Washington DC da Jason Simon (voce e chitarra), Steve Kille (basso) e Mark Laughlin (batteria). Sono stati venti anni incredibili e in cui Simon e Kille (il trio è stato completato nel corso degli anni da Mark Laughlin, Stephen McCarty e l’attuale batterista Juan Londono) con una successione incredibile di pubblicazioni discografiche fulminanti e performance dal vivo incredibili e altrettanto convincenti. Penso in questo senso siano una delle formazioni più toste io abbia mai visto suonare dal vivo e non è un caso se siano peraltro stati inseriti nel roster del prossimo Levitation Festival a Austin che si terrà in aprile dopo un anno di pausa come dire “forzata” causa situazioni climatiche poco favorevoli.

Idealmente prosecutori di una traduzione acid rock psichedelica cominciata con gruppi come Blue Cheer e MC5, il nuovo album dei Dead Meadow si intitola “The Nothing They Need” (Xemu Records) ed è stato registrato presso la Wiggle Room, lo studio di registrazione di proprietà della band, con la speciale partecipazione degli ex Mark Lauglin e Stephen McCarty e del chitarrista Cory Shane, che aveva collaborato alla realizzazione dell’album “Feathers” nel 2005.

Nonostante la ricorrenza, forse il disco non è il migliore realizzato dei Dead Meadow, anche se il sound è in fondo sempre quel tipico garage acid rock che costituisce marchio di fabbrica della band di Washington DC. Mi sembra difficile del resto che gli ascoltatori ascoltandolo possano resistere ad assumere quel tipico moto oscillatorio lento come se questi fossero una specie di pendolo mosso dall’alto dalla mano invisibile da una forza vitale superiore, Manitou, un grande spirito del rock and roll evocato da centenari rituali sciamanici, mentre la musica assume la forma di una donna che si muove ballando suadente strisciando tra le persone senza mai toccarle fino a vaporizzare in una gigantesca nube di fumo e portare la pioggia che batterà forte sulle nostre teste come una benedizione. Il battesimo marcato direttamente sulle nostre teste dalla lunga mano del rock and roll.


SIX ORGANS OF ADMITTANCE, “Hexadic III” (Drag City Records, 2018)

75/100

L’Hexadic System di Ben Chasny (Six Organs of Admittance) è costituito da diversi aspetti e corrispondenze che possono essere considerate nella loro interazione oppure singolarmente. Per approfondimento si rimanda ovviamente a una consultazione delle rappresentazioni anche grafiche messe a disposizione dallo stesso Ben Chasny. Il sistema si ispira principalmente a tre figure: il filosofo e teologo Ramon Llull, l’alchimista e esoterista Heinrich Cornelius Agrippa e il filosofo e scienziato francese Gaston Bachelard. Riprendendo aspetti della “teoria dei giochi” sviluppata da John von Neumann e Oskar Morgenstern e resa celebre dal matematico John Forbes Nash jr., tramite rappresentazioni e sistemi grafici e linguistici che si intersecano tra di loro su di piano di relazioni tonali, Ben Chasny ha formulato un modello compositivo esclusivo e assolutamente inedito e che in questo terzo capitolo di una rassegna cominciata nel 2015 viene proposto secondo l’interpretrazione di altri artisti.

“Hexadic III” è una raccolta comprensiva di sette tracce che riprendono il modello compositivo esagonale di Chasny. Il disco si apre con un pezzo dei Moon Duo (“Square Of The Sun”) che in una dimensione deep ambient riprende sonorità Spacemen 3 a bassa intensità. Jenks Miller (Horseback, Mount Moriah) è invece l’autore di “The Hanging Man”, un pezzo di folk psichedelia mescolato a forme di primitivismo americano e in uno stile non troppo lontano proprio da quello tipico Six Organs of Admittance. “Protection Hex” di Meg Baird e Charlie Saufley (Heron Oblivion) è fondamentalmente costruito sulla riverberazione di onde sonore e una forma estatica di dreamy-psychedelia. Tashi Dorji, musicista originario del Bhutan e ora residente a Asheville in North Carolina, che si può considerare una vera e propria scoperta di Chasny e storico collaboratore del percussionista Tyler Damon, è interprete una composizione acustica minimale in uno stile dove si fonde tradizione e spinta avanguardista. Richard Youngs propone una ballad acustica (“Abandoned Problems”) che oltre l’eco di Roy Harper, ha quello stile sofisticato e post-rock di Tom Greenwood (Jackie-O Motherfucker). “Solastalgia” è una composizione massiva nello stile Stephen O’Malley, che qui si accompagna al batterista Tim Wyskida e il musicista sperimentale Marc Urselli. La composizione minimalista di Phil Legard che chiude l’album (“Zoe Pastorale”) è forse il momento più interessante della intera opera e allo stesso tempo quello più rappresentativo del modello elaborato da Chasny e che egli ha più volte rappresentato come un sistema di carte da gioco e una filosofia che mescola assieme occultismo esoterico e come contare le carte al casinò.

(Emiliano D’Aniello)