AMEN DUNES, “Freedom” (Sacred Bones, 2018)

Così come l’ispirato “Love” uscito ormai quattro anni fa, anche il nuovo album “Freedom” racconta molto di sé già a partire dal titolo. L’abbiamo capito ormai, Damon McMahon aka Amen Dunes è uno così: per guidare la propria produzione artistica stabilisce una tappa, una meta, e ci racconta il complicato percorso esplorativo per raggiungerla.

“Freedom” è esattamente questo, anzi molto di più: non solo la conquista di un maturato sentimento di libertà personale e musicale, ma anche la l’opera di liberazione da numerosi tormenti intimi, che hanno segnato la vita e il carattere di McMahon prima come uomo che come artista.

A farcelo capire potrebbero bastare anche i due inserti audio piazzati non casualmente ad inizio del disco, in una traccia chiamata “Intro” che serve all’ascoltatore quasi come un prologo – “This is your time. Their time is over. It’s done” e “I don’t have any ideas myself. I have a vacant mind”. Ma se non fossero abbastanza, c’è tutto il resto del disco.

Per esempio, la prima delle tracce, messa lì subito dopo l’intro iniziale. È “Blue Rose”, in cui troviamo condensate le due anime del disco. Da una parte, una maturazione musicale: al folk sperimentale o cavernoso su cui erano costruite le cose precedenti e che aveva fatto la fortuna di “Love” sono preferite atmosfere più calde e avvolgenti. Il cantato ad alta intensità emotiva a cui siamo abituati qui si appoggia su percussioni morbide e texture elettroniche dal sapore inedito. Dall’altra parte poi troviamo il racconto di tormenti personali, in questo caso del complicato rapporto tra padre e figlio vissuto da McMahon fin dalla sua infanzia.

Lo dicevamo prima, lo ripetiamo ora: “Freedom” è il disco che segna una maturata fase di libertà, di uomo e di artista. È il racconto di storie e questioni personali trasformate in canzoni con lo scopo di liberarsene definitivamente, come una specie di esorcismo. Ed è anche il segno di una nuova vitalità musicale, il compimento di una fase esplorativa e concettuale, che vede nell’apertura a nuovi suoni e influenze la forza della spinta creativa. Lo diceva l’incipit del disco, lo ripetiamo ora: “This is your time. Their time is over. It’s done” e “I don’t have any ideas myself. I have a vacant mind”.

Un’evoluzione i cui indizi e gradi di intensità sono seminati per tutta la durata del disco. Se “Time” e “Skipping School” riprendono il sound minimale dei dischi precedenti, così come “Satudarah” più avanti, il singolo “Miki Dora” (tra i più riusciti del pacchetto) si costruisce sul groove di un basso che sembra suonare sottacqua, e che dà il ritmo ad una costruzione melodica non troppo lontana dalle atmosfere blues-rock di “Morrison Hotel” oppure a qualche eco dei primi Rolling Stones. Se l’impianto musicale trasmette una certa sensuale spensieratezza, nei testi McMahon utilizza la storia dello storico surfer Miki Dora per scrivere una specie di metafora distorta sulla contraddizione dell’animo umano e sulla società maschilista dei nostri tempi, per la quale lui stesso non si sente esente da colpe. Anche in “Believe” le morbidezze del sound accompagnano il racconto sofferto della malattia mortale della madre, confezionando un ossimoro sensoriale che ha il gusto salato delle lacrime di dolore.

Non si avverte ai primi ascolti, anzi è qualcosa che viene fuori man mano che ci si addentra nel disco, ma in tutte le tracce del disco c’è insomma uno stridore, non sempre palese ma denso di significati, tra musica e liriche. Quasi come un significato nascosto, accessibile solo agli ascoltatori più attenti. Una scoperta che, per i tempi che richiede, è indiscutibilmente qualcosa di prezioso.

Quasi come una catarsi, che si fa più intensa man mano che si arriva alla title-track – e probabilmente non è un caso: “Freedom” è fatta di chitarre dilatate e distese, di synth caldissimi e solari, di serenità conquistata con fatica. Per farvi capire meglio potremmo citare alcune delle ultime cose dei The War On Drugs, ma faremmo un torto che sinceramente Amen Dunes non merita: quella che ascoltiamo è tutta roba sua, ottenuta con i denti stretti e i pugni chiusi. Senza dubbio, è qualcosa che va ascoltata con ammirazione.

77/100

(Enrico Stradi)