JAGUWAR, “Ringthing” (Tapete Records, 2018)

Il 2017 non è stato un grande anno per lo shoegaze. Il genere, nonostante alcuni ritorni eccellenti negli ultimi anni come quello dei My Bloody Valentine oppure degli Slowdive, per non parlare di quello dei Jesus and Mary Chain, è stato incapace di rinnovarsi e sembrerebbe avere smarrito lo spirito originario delle origini. Questo è successo grazie a un eccesso della deriva dreampop che a un certo punto è divenuta così dominante da annullare quasi del tutto l’aspetto noise tipico di questo genere.

Il 2018 al contrario sembrerebbe aprirsi sotto migliori auspici. Almeno stando all’album di debutto dei Jaguwar, formazione berlinese nata nel 2012 ad opera di Oyèmi e Lemmy e che dopo l’aggiunta nella line-up del batterista Chris, ha acquistato una certa notorità negli anni pubblicando due EP su Prospect Records e condividendo il palco con band importanti come Jetpacks, Japandroids, The Megaphonic Thrift e altre. Registrato a Hof in Bavaria, presso i Tritone Studios, l’album si intitola “Ringthing”, esce il prossimo 12 gennaio e costituisce effettivamente uno degli episodi più convincenti del genere shoegaze io abbia ascoltato negli ultimi anni. Un esordio fulminante e nel quale la band combina alla perfezione le spinte più emozionali (“Lunatic’, ‘Skeleton’, ‘Gone’, ‘Whales’…) con sonorità shoegaze più acide e sostenute (‘Slow and Tiny’, ‘Crystal’, ‘Week’) risultando quello che è stato definito un punto di incontro tra l’immaginario caleidoscopico dei Cure e il furore dei Ride.

Più concreti ma meno accattivanti dei War On Drugs, privi di quella tipica mellifluità dei Toy, i Jaguwar, pure senza raggiungere quelle vette espressionistiche e caotiche dei Telescopes, sembrerebbero guardare proprio a quella direzione traducendo però il loro immaginario invece in un’opera astratta del pittore bavarese Hans Hoffman e dove la superficie del quadro si presenta cosparsa da macchie colorate impazzite e in continuo movimento senza nessun ordine apparente.

Emiliano D’Aniello

78/100