[#tbt] I 10 anni di “Untrue” e la storia collettiva

Se Mark Fisher ha definito il primo album di Burial «an elegy for the hardcore continuum», Simon Reynolds ha sottolineato il carattere invece infedele e artificioso del suo successore e capolavoro di William Emmanuel Bevan, di cui ricorrono in questo periodo i dieci anni dall’uscita: “Untrue”, appunto.

Con la formula “hardcore continuum”, coniata dallo stesso Reynolds, si fa riferimento alla storia pluridecennale che ha unito le prime versioni britanniche della acid-house importata da Chicago, con la genesi di quella cultura elettronica, ancora sostanzialmente viva negli anni ’10, a fuoco attorno alla UK garage fino ad arrivare alla dubstep. Non solo una vicenda strettamente musicale quindi, ma una storia collettiva, generazionale e persino un po’ politica, che dall’ardkore individualisticamente protestatario della cultura rave giunge alla desolazione riflessiva dei paesaggi urbani descritti nella fase ascendente dell’elettronica step, che Burial assume e riforma, fino a diventarne il simbolo, in effetti, un po’ infedele. Per i puristi infatti è Skream piuttosto che Burial, tra i molti esempi possibili, a rappresentare cosa è stata la dubstep nel suo momento alto a metà degli anni 2000.

La fedeltà alle proprie origini rappresenta un problema quando si fa sostanzialmente qualsiasi cosa, e la determinazione dell’aderenza ai presupposti di partenza è questione che si pone sempre quando si fa storia di un campo o di un oggetto. La storia dell’elettronica britannica degli ultimi venti-trent’anni è densa di infedeltà, ripensamenti, ritorni all’indietro, attraverso un approccio non raramente caratterizzato da tentativi ed errori, e dunque da un’intima discontinuità. Di conseguenza non sembrerebbe che la generazione dei Reynolds – il quale si ritiene un osservatore partecipante, o «critic-fanatic» –, che ha conosciuto l’ardkore fin dall’inizio abbia qualcosa come un’esperienza in comune con quella di chi scrive, il cui incontro con l’elettronica inglese avviene proprio a metà dei 2000, e per la quale “Untrue” è davvero un album generazionale.

La fedeltà alle origini, anche sconosciute rappresenta però da sempre un fattore di grande fascino: l’idea di condividere con altri, soprattutto se estranei e perduti nel passato, un’esperienza, una visione, persino una cultura, non a caso esercita da sempre notevole suggestione su chi fa la storia di qualcosa. Ed è interessante per noi pensare di avere qualcosa in comune con i nostri fratelli maggiori che hanno condotto la difficile resistenza alla cultura del riflusso. Forse il punto è proprio questo: se la jungle di “Leviticus” ha poco a che fare con la desertificazione emotiva di Burial (se non il nome di una canzone), queste culture hanno invece in comune almeno un avversario: la condizione di incertezza, precarietà e assenza di esperienza collettiva che ha attraversato, e continua ad attraversare, almeno tre generazioni.

(Francesco Marchesi)