THE NATIONAL, “Sad Songs for Dirty Lovers” (Brassland, 2003)

Prima che la carriera dei The National fiorisse meraviglioso come una rosa di un colore bordeaux intenso, la band di Cincinnati e brooklyniana di adozione non era che uno dei numerosi promettenti boccioli indie-rock del panorama emergente.

L’esordio omonimo del 2001 convinse, per quel modo sincero di mostrare un’idea di suono tanto viscerale quanto acerbo. Uno di quei dischi che a quelli come noi fanno scrivere “band da tener d’occhio”: ci si sente qualcosa di degno di nota, ma c’è ancora da lavorarci su. Con “Sad Songs for Dirty Lovers”, il secondo album, i The National tentano – e riescono – a dimostrare di che pasta sono fatti.

L’album è infatti prima di tutto una dimostrazione di saper allargare un orizzonte musicale che nel primo disco coincideva più o meno con una specie di scarno alt-folk/alt-country. Quella è la matrice, ma qui si ascolta molta più roba: ad esempio “Murder Me Rachel”, quasi un turning-point dell’album, in cui il quintetto mostra aspre venature elettriche, confezionando un crescendo abrasivo e dai toni noise.

Scopriamo così che l’elettricità dei suoni si sposa alla perfezione con il mood noir, nichilista e decadente della band, almeno tanto quanto le costruzioni acustiche più soffuse a cui ci aveva abituato nel primo album. La tensione di “Available” va di pari passo con le carezze di “Cardinal Song”, e così altri episodi nel corso del disco, che si divertono a stare in equilibrio tra seduzione ed erotismo, tra tristezza e malinconia, tra ricordi e rimpianti. Sospesi e fragili, si arriva all’ultima “Lucky You”: una specie di abbraccio caldo e intenso, un gioiello, una pillola di perfezione che influenzerà anche gli album seguenti.

Amori e ossessioni, errori e fragilità: “Sad Songs For Dirty Lovers” segna anche l’ascesa del frontman Matt Berninger e della sua fascinosa maniera di raccontare il suo personale caos emotivo. Mai come prima infatti il sound della band construito dai fratelli Dessner e Devendorf riesce ad aderire perfettamente alle sofferte spigolosità dei testi delle canzoni: tutto è al suo posto, c’è ordine nella complessità. Il fiore dei The National è finalmente sbocciato.

74/100

(Enrico Stradi)