CHILDHOOD, “Universal High” (Marathon Artists, 2017)


Tornano nel caldissimo luglio 2017 i Childhood, a tre anni di distanza da un album da noi incensato come “Lacuna” e – me l’immagino io – dopo l’ascolto di tonnellate di Long Playing recuperati dagli anni 80 in giù. Nel nuovo “Universal High” la buona qualità generale dei brani resiste, semmai il giovane quartetto li correda di arrangiamenti più caldi e patinati: un’arma a doppio taglio che presuppone da un lato il desiderio di realizzare musica pop ad ampio respiro, spingendosi oltre i propri limiti, dall’altro il rischio di suonare alle volte troppo datati e/o monocordi.

I singoli usciti esemplificano al meglio il nuovo corso groovy (e radio friendly) della band di Ben Romans-Hopcraft, che mai come oggi presta la sua voce alla causa quale strumento virtuoso e pregno di romanticismo. “Californian Light” è funk bianco, blue-eyed soul, una canzone fatta apposta per l’estate e i cocktail in spiaggia. Un orecchio all’hypnagogic pop (il Toro Y Moi di “Underneath The Pine”) come rimarcato dal nostro Paolo Bardelli in sede di presentazione di “Cameo”, ma anche agli Style Council e a Joe Jackson nella pianistica title track. Fanno capolino addirittura i fiati in “Don’t Have Me Back”, northern soul aggiornato ai tempi moderni quasi in risposta a questo pezzone dei Saint Etienne dall’ultimo “Home Counties”. Solo discreta l’apertura corale di “A.M.D”; “Melody Says” infine si guadagna la palma di traccia più audace e intellettuale, con il suo mix di atmosfere tra David Sylvian e Roxy Music.

Il secondo lavoro dei Childhood mette da parte le chitarre indie di una “Solemn Skies” a favore di un mood ampolloso e vintage che però rischia di annoiare – come in “Understanding”. Tuttavia ci sono momenti di “Universal High” in cui non difettano di coraggio, ed è qui che li preferisco: si ascolti la penultima traccia “Nothing Ever Seems Right”, il migliore trait d’union con l’esordio del 2014. Distinguiamo di nuovo la lezione degli Stone Roses nella chitarra jangle e un pò psichedelica, mentre l’esplosivo chorus sembra rubato ai Duran Duran periodo “Rio”. Completano il tutto una linea di basso da capogiro e l’assolo di sax nel caustico finale di tastiere. Non resta che attendere il terzo album per chiarirci le idee su cosa i Childhood vorranno fare da grandi.

70/100

(Matteo Maioli)