SLEAFORD MODS, “English Tapas” (Rough Trade, 2017)

Incazzati come sempre, forse anche più del solito, gli Sleaford Mods tornano a distanza di pochi mesi dall’uscita dell’ EP “T.C.R.” (vedi link) con l’album English Tapas, per la prima volta con la Rough Trade, etichetta indipendente di fama internazionale.

Titolo emblematico non a caso, lo hanno preso direttamente dal nome del menù di un pub inglese che consigliava un piatto di patatine fritte e mezza scotch egg serviti con una mini pork pie e qualche sottoaceto. Come ha delicatamente descritto Wiliamson “il nome di questo menù dice tutto di questo posto del c***, ignorante, senza alcun senso del gusto e soprattutto pieno di m***” che è, nella metafora, l’Inghilterra di oggi.

Felici di sentirli ancora così rabbiosi e critici, questa volta Williamson e Fearn se la prendono con le ultime miserie che la società britannica sta attraversando negli ultimi tempi, prima fra tutte la Brexit, spiattellandoci in faccia uno spaccato nudo e crudo dell’aria che si respira da quelle parti.

La ricetta del duo di Nottingham si conferma la stessa anche in questo che è il loro nono album, con Williamson nel ruolo di sputa sentenze con slang delle East Midlands e Fern responsabile degli arrangiamenti.

L’album prende il via con “Army Nights”, ironizzando su quella che è la cultura e la vita che ruota attorno alle “locker rooms” (gli spogliatoi maschili) cui, non dimentichiamocene, Trump ha fatto ricorso non molto tempo fa per giustificare i toni delle sue eleganti uscite sulle donne e i loro genitali (“it’s locker room talk” ha detto in sua difesa). Seguono “Just like we do”, contro gli snob del mondo della musica che li odiano perché hanno successo, e “Moptop” indirizzata, seppur senza menzionarlo, all’ex sindaco di Londra Boris Johnson (“He’s got a blonde moptop”) e l’enorme menzogna che è la sua figura. Costante, nella maggior parte dei pezzi, è il tema dell’abuso di alcool e droghe (“Messy Anywhere” o “Drayton Manored”) inteso come mezzo necessario per uscire dalla propria mente ed ignorare la miseria che è l’esistenza. Gli Sleaford non predicano mai, semmai narrano con estremo realismo tutto quello che sta oltre la superifice. Non si risparmiano e, con toni più ironici e meno politici, ne hanno anche per NME (“Dull”) e per la moda dilagante della cucina biologica (i had an organic chicken it was shit) (vedi “Cuddly”). “B.H.S.”, primo singolo estratto dall’album, affronta la vicenda del magnate caduto in disgrazia Philip Green, il miliardario più odiato del Regno Unito che, fallita la catena di negozi che rappresentava e tagliati 11.000 posti di lavoro, si è rifugiato in crociera sul Mediteranneo a bordo del suo yatch da 400 milioni di dollari.

I testi, anche in questo album, sono la componente principale del prodotto, di un’efficacia estrema che supera di gran lunga tutto quello che riguarda l’arrangiamento musicale, che non per questo è però trascurabile. La qualità della basi del produttore Fearn è confermata, con i beat che vanno dal post punk all’hip hop e che seguono alla perfezione il flusso delle parole sparate a raffica da Williamson. Unici nel loro genere, come loro stessi amano definirlo “eletronic munt minimalist punk-hop rants for the workin class”, gli Sleaford con questo album ci regalano un altro validissimo esempio di quanto siano una band di tutto rispetto, coerente con se stessa e decisa nel proseguire nel suo cammino di critica della società e del mondo del lavoro odierni.

70/100

(Virginia Tirelli)