DMA’S, “Hills End” (Infectious, 2016)

DMAsCosa serve per far salire l’hype intorno alla propria band? Le strategie di self-promotion sono ormai una componente fondamentale per il successo o il fallimento di un artista, un disco, un progetto musicale. Siamo spettatori di un incessante giochino a chi lo fa più strano e/o divertente e/o irriverente e/o efficace e i DMA’s sono solo uno degli innumerevoli esempi.

Al trio di Sydney per far parlare di sé sono bastate tre-cose-tre: un EP fatto uscire l’anno scorso, l’endorsement del NME, le dichiarazioni di disprezzo di Noel Gallagher. Naturale che dopo le parole dell’ex Oasis la sorte degli australiani DMA’S sia cambiata totalmente, ed è per questo che il primo disco di una comune band pop-rock capace di azzeccare una manciata di pezzi è finito recensito sulle riviste e sulle webzine più attente alle novità.
Già dai primi secondi di “Hills End” capirete (e probabilmente condividerete) l’astio di Gallagher: i DMA’S suonano nel 2016 quello che i suoi Oasis suonavano vent’anni fa. Pop-rock, chitarra-basso-batteria, ritornelli e melodie a presa rapida, mood scanzonato, dolceamaro e irriverente. Non c’è una sola canzone di questo album che vi suonerà male: dodici brani in cui le atmosfere, le intensità e i riff si alternano in maniera perfettamente calibrata. All’energica doppietta elettrica che apre il disco – “Timeless” e “Lay Down” – segue “Delete”, la ballad dai tratti malinconici che sembra fatta apposta per il re-play; “Too Soon” e “In The Moment”, si cimentano nell’indie-rock elettrico, con quelle schitarrate che suonano benissimo nelle grandi arene, mentre “So We Know” gioca sulle strofe acustiche per emozionare e scaldare i cuori dei nostalgici del brit-pop; “Straight Dimensions” dimostra buone intuizioni anche in territorio jangle-pop, e le atmosfere ariose dell’ultima “Play It Out” oltrepassano l’Atlantico guardando all’indie americano degli anni ’90.

Ve ne sarete accorti leggendo, ma è bene esplicitare il concetto: “Hills End” è un buon disco. Un album di belle canzoni, che non chiedono altro che essere imparate a memoria e cantate a voce alta durante i concerti. Robe semplici, a cui non importa di stare ad inseguire il sound del momento, lo zeitgeist. Buona parte dei meriti, oltre che ai tre ragazzi australiani, va data anche a Mike Spent, storico produttore degli Oasis, la cui influenza in questo album è fortissima e innegabile. Oltre al debito artistico, che comunque non hanno problema ad ammettere, ai DMA’s va riconosciuta anche un’altra cosa: di saperci fare. Quello che agli Oasis – e progetti figli – non riesce più. Noel Gallagher può fischiare quanto gli pare.

68/100

(Enrico Stradi)