“Murder Ballads”: quando MTV ammaestrò la musa di Nick Cave

Murder-Ballads

“Murder Ballads”: uscito vent’anni fa è il disco più venduto nella carriera dell’australiano.

Nick Cave, probabilmente, se lo sentiva. O forse no. Ma in quella lettera scritta a MTV nell’ottobre del 1996 nella quale chiedeva al canale di ritirare la sua candidatura agli awards nella categoria best male artist e di non candidarlo mai più ad alcun awards in futuro c’è nella migliore delle ipotesi tutta l’ambiguità di “Murder Ballads”, l’album più venduto della carriera dell’artista australiano. Nella peggiore, c’è il segno premonitore di quello che sarebbe accaduto nei vent’anni seguenti di carriera: con la Musa dell’australiano che, come temeva lo stesso Cave, non si è mai più ripresa del tutto dal trauma di essere stata misurata e messa in competizione con altri da MTV.

Uscito in Usa il 20 febbraio 1996, “Murder Ballads” è il disco che ha tolto Nick Cave dagli angusti limiti dell’indie rock per proiettarlo nel mare magnum del mainstream. Grazie ai duetti con star del calibro di PJ Harvey e, soprattutto, Kylie Minogue. Lo stesso Cave avrebbe ammesso in seguito che il singolo “Where The Wild Roses Grow” non era rappresentativo del disco e che tanti ascoltatori attratti dal brano in duetto con la Minogue erano poi rimasti delusi dal resto dell’album, ma resta innegabile la visibilità regalata dal brano, e dallo splendido video, al lavoro dell’australiano.

Ma, distratti ascoltatori di MTV a parte, dove si colloca “Murder Ballads” nella discografia di Nick Cave & The Bad Seeds? Ascoltato allora, si aveva l’impressione di un album riuscito a metà. Interessante nel tema dominante, ma altalenante nel risultato finale. Da un lato alcuni brani di grande spessore, dall’altro canzoni di maniera, addirittura fiacche: una novità fino ad allora nella carriera di Cave che aveva regalato album di valore diverso, ma sempre freschi, veri, vivi. Ecco, con “Murder Ballads” sembrava morire in parte anche quel furore, quella spinta inconoclasta, densa di rabbia, confusione, tormento, disperazione e voglia di redenzione che permeava tutti gli album di Cave con i fidati Bad Seeds. Riascoltato oggi, a vent’anni esatti dalla sua uscita, il giudizio si stempera un po’, soprattutto se lo si analizza ex post, alla luce dei lavori dei vent’anni successivi, questi sì sempre più misurati e di maniera. Insomma, “Murder Ballads” sembra lo spartiacque tra la prima parte di carriera di Cave che ha toccato i suoi punti più vibranti e innovativi con la trinità composta da “The good son” (1990), “Henry’s dream” (1992) e “Let love in” (1994), senza dimenticare l’ancora acerbo ma straordinario “Tender prey” del 1988, e la seconda parte fatta soprattutto da ballate intimiste nelle quali le invocazioni al Signore non sono più laceranti urla disperate ma pacati sussurri di ringraziamento. Che non a caso, in un paio di occasioni, finiranno anche nella colonna sonora di blockbuster per famiglie come “Shrek” e “Harry Potter”: un bel salto per l’ex frontman post punk eroinomane dei Birthday Party…

Se brani come “Henry Lee” e “Song of Joy” arrancano ma portano a casa il risultato con pragmatismo trapattoniano e ispirazione un po’ di seconda mano, se “Death is not the end” (pur impallidendo al confronto con gli altri tributi a Dylan, ovvero “Wanted man” su “Firstborn is dead” del 1985 e “Knockin’ on heaven’s door” suonata mille volte dal vivo e che Cave avrebbe scambiato senza pensarci due volte con la sua intera discografia) è un simpatico, per quanto ruffianello, escamotage per risollevare lo spirito del disco e riportarne in vita tutti i protagonisti assassinati traccia dopo traccia, sono altri i brani che fanno il disco: “The curse of millhaven”, ad esempio, o la già citata “Where the wild roses grow”, che non perde la sua grandezza nemmeno nelle versioni dal vivo, con l’ugola di carta vetrata di Blixa Bargeld a sostituire la patinatissima e sexy performance di Kylie Minogue. Ma è soprattutto “O’Malley’s bar” a costituire lo straordinario canto del cigno di una certa fase compositiva di Nick Cave. 14 minuti di follia, di tensione, di violenza, di rabbia pura distillata in musica, potente ed elementare, quasi primitiva, ma ugualmente originale e nuova. Un brano che sembra un cortometraggio del miglior Tarantino, dove sangue e risate si mescolano in un quadro nero grottesco e palpitante, nel quale il protagonista si mette persino a discutere di libero arbitrio con il barista che sta per ammazzare. Non a caso un brano scritto diverso tempo prima, addirittura nel 1992, durante le session di “Henry’s dream”, disco del quale porta marcatamente il Dna addosso.

E dopo “Murder Ballads”? E’ come se la Musa di Cave se la fosse presa per essere stata misurata e messa in vetrina (e in competizione) da MTV, portando Cave a scrivere canzoni e dischi che, belli o brutti, potevano comunque essere presi in considerazione anche dal pubblico standard di MTV. Album pacati, riflessivi e sempre più già sentiti. Cave ha ripetuto più volte che il cambiamento nel suo modo di scrivere è stato come il passaggio dal vecchio al nuovo Testamento. In termini secolari si traduce probabilmente in mezza età.

(Giampaolo Corradini)
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