VERDENA, “Endkadenz Vol.2” (Universal, 2015)

endkadenz-vol.-2-e1436801041816-650x650Sinceramente non sapevo cosa aspettarmi dal secondo volume di quest’opera. Opera nel senso di creazione umana. Quando è uscito “WOW”, ispirazioni ed esecuzioni si sono concentrati in un’unica puntata, che, buona la prima, ha fatto capire che era in corso un bel cambiamento, o meglio, un arricchimento. Volevano sperimentare quello, ci sono riusciti. Perfetto, avanti verso l’idea successiva.
Con Endkadenz (Vol.1 + Vol. 2) si poteva fare benissimo così, perché la coerenza c’è. In “WOW” c’era somiglianza, ed è diverso, perché, ragioniamoci un attimo, la stragrande maggioranza degli ascoltatori dei Verdena non conosce il secondo disco di quel doppio così come, al contrario, sta crescendo la familiarità con Endkadenz Vol.2.
Il Vol.1 e il Vol.2 non sono fratelli, sembrano piuttosto fratellastri. Con uno più buono e uno più cattivo, capite voi quale è chi.

Giocando ad essere lapidari. Così come nel Vo.1, anche nel Vol.2 c’è tutta la produzione battistiana dal ’70 all’ ’80. Certo, sembra troppo facile da dire.
Perché non la riconosci se non per assonanze e voli mentali a quel periodo. Un periodo che non hai vissuto, certamente, ma senti fortissimo in te come un déjà vu. Scartavetrato della patinatura e del pop all’ennesima potenza di quelle produzioni, digerito male col punk italiano della micro provincia italiana anni novanta. Una sensibiltà che poco lascia al caso, col ripetuto rischio in cui si cade puntualmente: diventare maniacali.

Credo sia anche per questo che Endkadenz Vol.2 entra a gamba tesa nello stomaco, appena parte, con “Cannibale”, per poi autosoffocarsi sul finale con tromba strozzata e colpi sulle pelli allentate.
Il piano che entra subito dopo assomiglia ad una cavalcata poderosa, che poi diventa trotto e poi ancora un balletto di muscoli ed eleganza, come ad un concorso di equitazione. Si chiude la figura e di nuovo riprende la cavalcata, più consapevole, per poi tornare ad un trotto, che la seconda volta che l’ascolti, diventa quasi canzonatorio, diradando l’incedere man mano che si arriva alla chiusura del pezzo, ed entrano i cori, fumi colorati di derivazione battistiana, appunto (“Dymo”).
Semplice preparazione a una tempesta di bassi e cassa. Ed è notevole come la voce di Alberto Ferrari diventi luce del lampo e campo magnetico del tuono nel furore totale di “Colle immane”.

…e ci risiamo.
Con l’ispirazione agli arrangiamenti del solito autore reatino. Salvo poi costruirci sopra tutt’altro, col le parole (che non sono frasi) e la voce, che rinnova, cambia la faccia a ritmi familiari a livello uterino, e diventano tutta un altra cosa (“Una donna per amico” vs “Un blu sincero”. Cambio di tempo anche qui, tra le altre cose). Con ritmi world che si manifestano nelle temperature che avverti. Perché il correre, lo spiazzarsi, i cambi di velocità, le lentezze, le frenate, il marciare con andamento a battute claudicanti ti accaldano e disidratano come il sole delle 3 del pomeriggio ad Agosto sulle Murge oppure ti ghiacciano il sangue per sensazione mentale. Ovviamente.

Quando è uscito il teaser di presentazione del Vol.2, Luca Ferrari ha fatto riferimento a “bonghi un po’ junglosi”. Li ho cercati subito, appena avuto il disco. Curiosa. Di dove potessero andare a finire. In quale idea o quale delirio. Quali struggimenti avrebbero sorretto, o quale passaggio intenso, gonfio di quale sentimento? Credo di averli trovati in “Identikit”. Nella sua disperazione, iniziale, nel capacitarsi, poi, dei suoi ultimi secondi.

C’è una guerra sonora in atto, in questo album. Prima i colpi di cannone a raffica poi le mitragliate di “Fuoco amico I” che alla fine “pela i suoi tratti“.
Un tema forse… l’amicizia.
Captando frammenti del testo si può intendere tutto quello che puoi immaginarti giocando con la lingua, senza dire poi effettivamente nulla che non abbia senso se non per il solo autore. C’è un masochismo semiotico/semantico in ognuno di noi, che altro non è che un luna park per Alberto Ferrari. Quando finisco le palle di cannone rimangono uomini a terra, che si trascinano pesantemente negli urli anelando la voce del pezzo come una luce in fondo al tunnel. Gli uomini che si trascinavano piano si rianimano e ballando ritmi tribali la raggiungono. E tutti insieme si ritrovano in un circo di Fellini. (“Fuoco amico II”).
Un visione che tutto sommato andrebbe anche bene a Monty Python, ma freniamo la fantasia.

Non macano le ballate. “Nera visione” di fattura profondamente verdeniana, è potenzialmente un nuovo anthem. Sul lungo periodo, almeno dopo “WOW”, le due parole più ripetute dei loro pezzi, dopo “scegli meee“, saranno “nera visioneee“.
Piano, basso che culla, piatto accarezzato. E’ un classico dell’avvolgimento fisico a cui sanno arrivare alcuni dei loro pezzi. Sensazione da ali ai piedi, sbilanciamento corporale del volare ritti, l’aria morbida che ti sostiene tutt’intorno.
Poi violentemente qualcuno ti strattona: “Troppe scuse”. Che forse non bastano neanche. Ma c’è l’ennesimo cambio di tempo. Le scuse diventano coccole e calore. Elettricità aerea, cassa gonfia, basso che contiene e rafforza allo stesso tempo. Quando arrivano anche la dolcezza, la passione e lo scherzo, pace è fatta. Tutto in un solo pezzo.

Dopo il breve stacco di “Natale con Ozzy”, “Lady Hollywood” sembra un pezzo finalmente lineare. Nessun cambio di tempo, ma tante bolle di cori e accumuli che si gonfiano e scoppiano in maniera armonica. Un ballad ordinata, incredibilmente.

Siamo al rush finale.

“Caleido” è i Verdena. Accordi a salire, ripetuti e circolari. Orpelli di batteria. La voce di Alberto, acida e graffiante. Un primo singolo migliore e meno paraculo di “Un po’ esageri”, decisamente.

Dulcis in fundo, “Waltz del Bounty”, regala ancora una ballata e ancora “Le allettanti promesse” serpeggiano ora più nascoste ora meno velate nella melodia. Una vera e propria dedica a cuore in mano, se non altro per me.

Riuscissi almeno a intercettare un senso banale del testo…

83/100

Elisabetta De Ruvo