THE DECEMBERISTS, “What A Terrible World, What A Beautiful World” (Capitol, 2015)

What_A_Terrible_World,_What_A_Beautiful_WorldTorno a recensire i Decemberists a quattro anni da “The King Is Dead” e il risultato è più o meno quello che mi aspettavo. Settimo album di studio della band di Portland e poco o nulla è mutato, nel bene e nel male.
Nel bene perché un bidone dai Decemberists non si prende mai. Nel male perché viene da chiedersi fino a quando Colin Meloy potrà proseguire sui binari di un rassicurante mestiere. Probabilmente per gli aficionados nordamericani è più che sufficiente così e magari non hanno nemmeno tutti i torti.
“What a terrible world…” è un diligente campionario di tutti gli stili e gli influssi che compongono l’eclettismo dei Decemberists, pare confezionato a tavolino per non scontentare nessuno. C’è il blues (“Till the Water’s All Long Gone”, “Better Not Wake The Baby”), il country (“Carolina Low”, “Anti-Summersong”), il pop rock (“Cavalry Captain”), le (poche) venature pop-prog (“Lake Song”), gli omaggi ai R.E.M. (“Make You Better”, “A Beginning Song”), persino il rock dei ’50, primi ’60: i coretti di “Philomena”, la chitarra di “Easy Come, Easy Go” che èvoca il sound degli Shadows di Hank Marvin.
Il disco scorre anche se non c’è quasi mezza idea nuova: la band che prende il nome dalla Rivoluzione Decabrista si è ormai adagiata in una rassicurante conservazione. Tutto già sentito, dalle carinerie di “Philomena”, condita da coretti, alle ballate folk-rock come “The Singer Addresses His Audience”. Ho il sospetto che se un pignolo recensore avesse voglia e tempo di riascoltarsi in parallelo tutta la precedente produzione, si potrebbe persino individuare qualche autoplagio… O forse è proprio l’effetto di questo manierismo di qualità, che trascina all’estenuazione motivi una volta originali e freschi. Come il groove di batteria di “The Wrong Year”, che si ripete quasi invariato di album in album.
Le cose migliori si ascoltano forse quando rispunta fuori la vena britannica di Meloy, ad equilibrare quella yankee, il che purtroppo accade sempre più di rado. Per quanto mi riguarda è sempre stato così per i Decemberists, fin dagli esordi: un’alchimia fra le due sponde dell’Oceano durata forse quel che doveva durare e, almeno ad oggi, parzialmente evaporata. “Lake Song” sembra anelare quel qualcosa in più per diventare un gran pezzo e “A Beginning Song” è ad un soffio dall’essere un gran finale. Chitarre, fisarmonica, armonica: tanta America, tanto Dob Dylan (“12/17/12”) e tanto Springsteen. Tanto Meloy e la sua voce sempre miracolosa.

Quattro anni fa scrissi che un rallentamento della produzione avrebbe forse giovato all’ispirazione…e i Nostri hanno effettivamente tirato un po’ il freno a mano. Ma il colpo di coda non è ancora arrivato.

65/100

Federico Olmi