VIET CONG, “Viet Cong” (Jagjaguwar, 2015)

53944b3fAl culmine di una velocissima ascesa verso la popolarità nel panorama indie nord-americano, arriva finalmente il debutto omonimo dei Viet Cong. Tutto merito, o almeno in buona parte, del potentissimo singolo “Continental Shelf”, rilasciato a metà ottobre, che ha lasciato tutti ko fin dal primo giorno (vedi link). Un pop ammaliante dall’andatura marziale che ha riportato alla mente gli esperimenti acidi di una delle band canadesi più originali e imitate dello scorso decennio, i Wolf Parade di Spencer Krug e la filiazione Sunset Rubdown. Non è una semplice assimilazione geografica a tema canadese. I Wolf Parade si erano formati nel cuore di una delle aree musicali più prolifiche del Paese, molte miglia più a Est, in quel di Montreal. Ed erano originari della British Columbia, estremità occidentale del Canada.

I Viet Cong sono nati e cresciuti musicalmente quasi a metà strada, a Calgary, Alberta e sono tutto tranne che un volto nuovo per gli appassionati di musica indipendente del nuovo secolo. Molto prima di “Continental Shelf” e dell’EP “Cassette” venduto per quasi un anno in tour e poi distribuito dalla scorsa estate in vinile dalla Mexican Summer di Brooklyn. Ancora prima Matt Flegel, voce e bassista, e Mike Wallace, batterista, s’erano fatti conoscere dal grande pubblico indie grazie ai Women. La band con due dischi in tre anni dal 2008 al 2010 s’era distinta per un post-punk molto elaborato e sofisticato, dalle tendenze che in molti amano definire “art-rock”. La loro velocissima parabola volge al termine, secondo i racconti, dopo una clamorosa rissa che li vede protagonisti al Lucky Bar di Victoria, dopo un loro concerto. Dalla pausa al drammatico scioglimento, due anni dopo, quando improvvisamente il chitarrista Christopher Reimer muore tragicamente nel sonno.

Flegel decide di non mollare e nel 2013 fonda il progetto Viet Cong (nome per google ancora più complicato di Women) insieme al chitarrista di Chad Van Gaalen Scott Munro, all’ex Women Mike Wallace e a un altro chitarrista, Daniel Christiansen, allora impegnato in una cover band dei Black Sabbath. Da questo nuovo equilibrio nasce una formula di successo, ancora figlia del post-punk, ma non priva di svarioni che variano efficacemente il tema. Chi li ha conosciuti con la splendida e immediata “Continental Shelf”, non può che rimanere stranito per la partenza in stile This Heat (o se volete Liars) che apre i 35 brucianti minuti del disco. L’eccentrica altalena tra psych-pop e rigurgiti tra kraut e industrial riemerge a metà disco con la claustrofobica “March Of Progress” e quell’improvvisa apertura melodica molto Syd Barrett. Il resto è un post-punk estremamente spigoloso che ammicca al noise-pop dei già citati Wolf Parade, ma anche alle produzioni più morbide della Dischord di Ian MacKaye, se non addirittura ai Sonic Youth e ai discepoli canadesi Eric’s Trip. “Bunker Buster”, unico brano già noto tra le prime registrazioni, ci riporta al post-punk intellettuale dei Women con quell’andatura tra P.I.L. e Gang Of Four. A prescindere dal gioco delle derivazioni, “Pointless Experience” e “Silhouettes” convincono fin dal primo ascolto grazie a delle sequenze ritmiche memorabili e una forma canzone vincente.

In tutto ciò riescono persino a dedicare 1/3 del disco a “Death”, sfuriata sonica conclusiva che mette assieme, con un’armonia perfetta, tutte queste influenze e spinge subito l’album tra i must di questo mese e dei prossimi undici che seguiranno.

Fosse uscito lo scorso anno, il disco d’esordio dei Viet Cong, sarebbe finito in molte top-10 del 2014. La speranza è che non ci si dimentichi di questa perla tra undici mesi. Sarebbe quantomeno ingeneroso.

86/100

(Piero Merola)